venerdì 29 marzo 2013

U.G. Krishnamurti - Non c'é niente da capire.

La sapienza trascendente



Prajnaparamita


PRAJNAPARAMITA
La Prajnaparamita è la divinitä femminile che rappresenta il corpo della verità e la madre di tutti i Buddha.
Personifica tra l'altro la saggezza trascendentale, la conoscenza e la vacuitä.

Il Mahaprajnaparamita-Hridaya- Sutra del cuore, è l'espressione della saggezza e la base
del Buddhismo Mahayana, il grande veicolo: eccone l'introduzione

IL SUTRA DEL CUORE DELLA CONOSCENZA TRASCENDENTALE

"Al di là d'ogni parola o pensiero, indescrivibile ed inconcepibile, Prajnaparamita, inesprimibile a parole o pensiero, la conoscenza trascendentale, l'essenza dello spazio, dalla natura simile al cielo, non può essere sperimentata che attraverso la chiara conoscenza discriminante"...
cfr. http://www.giosilvani.ch/html_it/32_prjnaparam.html

Prajñāpāramitāsūtra (sanscrito; devanagari: प्रज्ञा पारमिता, cinese: 般若波羅蜜多經 pinyin Bōrě bōluómì duō jīng, giapponese Hannya haramitta kyō, tibetano  Shes-rabkyi pha-rol-tu phyin-pa' i mdo, coreano: banya-paramilda, vietnamita: Bát Nhã Ba La Mật Đa) ovvero Sutra della perfezione della saggezza o Sutra della conoscenza trascendente è il nome dato ad un insieme di trentotto sutra buddhisti, i più antichi dei quali risalgono al I secolo a.C. mentre i più tardi arrivano al VII secolo d.C., che sono, unitamente al Sutra del Loto, al fondamento del Buddhismo Mahāyāna.

Il nome dei Prajñāpāramitā Sūtra deriva dall'insieme di alcuni termini sanscriti:
  • prajñā = sapienza;
  • pāram = al di là;
  • itā = lei che è andata.
Quindi si potrebbe tradurre come sutra della 'sapienza trascendente' (intendendo quest'ultimo termine nel significato di "non mondano"). Non si conosce il nome dei loro autori; secondo la tradizione buddhista Mahāyāna si tratta di insegnamenti dispensati dal Buddha Shakyamuni stesso ad alcuni discepoli scelti (Ānanda e Subhuti) sul "Picco dell'Avvoltoio" (sans. Gṛdhrakūṭa) a Rājagaha (oggi Rajgir, in India). In alcuni casi, come per il Sutra del Cuore, gli insegnamenti sono sempre emanati dal BuddhaShakyamuni ma effettivamente esposti dal bodhisattva Avalokiteśvara. La totalità degli studiosi annovera tuttavia queste tradizioni come 'leggendarie'. I Prajñāpāramitā Sūtra compaiono progressivamente dal I secolo a.C. nell'India meridionale per spostarsi verso quella occidentale e infine verso Nord. Nāgārjuna nel II secolo d.C. avviò lo studio sistematico della letteratura dei Prajñāpāramitā Sūtra, anche se nelle sue opere non vengono citati, fondando così, di fatto, la prima grande scuola di tradizione Mahāyāna, la Mādhyamika.
La dottrina di questi sutra parte dalle sei perfezioni (pāramitā) descritte nelle biografie del Buddha Shakyamuni. Esse vengono interpretate e riassunte nell'ultima e più importante di esse: la saggezza (prajñā). Così la realizzazione della perfezione della saggezza (Prajñāpāramitā) che corrisponde alla vacuità (śūnyatā) ovvero alla insostanzialità (abhāva) dei fenomeni in quanto impermanenti (anitya) e interdipendenti (pratītyasamutpāda) è considerata in grado di fa realizzare la buddhità (buddhatā) e l'illuminazione (bodhi).
Nei trentotto testi che costituiscono l'insieme dei Prajñāpāramitā Sūtra la dottrina della vacuità riveste un ruolo fondamentale. Si può sostenere che fin dai Prajñāpāramitā Sūtra più antichi, l'estensore degli stessi, che potrebbe voler riportare degli insegnamenti dello stesso Buddha Shakyamuni non accolti negli Āgama-Nikāya, accompagni la dottrina della vacuità con la pāramitā prajñā ritenuta l'ultima e la più importante già nelle scuole del Buddhismo dei Nikāya (scuola Sarvāstivāda). Nel complesso la letteratura dei Prajñāpāramitā Sūtra elenca venti tipi di vacuità (sanscrito viṃśati śunyātā):
  1. Vacuità degli organi di senso (adhyatana śūnyatā).
  2. Vacuità dei fenomeni percepiti (bahirdhā śūnyatā).
  3. Vacuità degli organi di senso e dei fenomeni percepiti (adhyatanabahirdhā śūnyatā).
  4. Vacuità della vacuità (śūnyatā śūnyatā).
  5. Vacuità dello spazio (mahā śūnyatā).
  6. Vacuità dell'assoluto (paramārtha śūnyatā).
  7. Vacuità dei fenomeni condizionati (saṃskṛta śūnyatā ).
  8. Vacuità dei fenomeni non condizionati (asaṃskṛta śūnyatā ).
  9. Vacuità di ciò che è al di là dell'eterno e del nulla (atyanta śūnyatā ).
  10. Vacuità di ciò né inizia né termina, del Samsara (anavaraga śūnyatā).
  11. Vacuità di ciò che degli insegnamenti che vanno accolti (anavakara śūnyatā ).
  12. Vacuità dell'intima natura dei fenomeni (prakṛti śūnyatā).
  13. Vacuità di qualsiasi fenomeno o dharma (sarvadharma śūnyatā ).
  14. Vacuità delle carattetistiche di ogni singolo dharma (svalakṣaṇa śūnyatā).
  15. Vacuità dell'inconcepibile (anupalambha śūnyatā).
  16. Vacuità dei fenomeni privi di identità (abhāvasvabhāva śūnyatā ).
  17. Vacuità dei fenomeni che posseggono delle sostanzialità (bhāva śūnyatā).
  18. Vacuità di ciò che è privo di sostanzialità (abhāva śūnyatā).
  19. Vacuità dell'identità (svabhāva śūnyatā).
  20. Vacuità della natura trascendente (parabhāva śūnyatā).
Tali "vacuità" stanno ad indicare che ogni forma, esistenza o non esistenza, è vacuità e ogni vacuità è ognuna di queste. Così come recita uno dei Prajñāpāramitā Sūtra più noti, il Prajñāpāramitā Hṛdaya Sūtra (Il Sutra del Cuore della perfezione di saggezza): «Qui, O Sariputra, la forma è vacuità e la vacuità è forma; la vacuità non differisce dalla forma, la forma non differisce dalla vacuità; qualsivoglia cosa sia forma, quella è vacuità; qualsivoglia cosa sia vacuità, quella è forma». L'insieme del corpus scritturale dei Prajñāpāramitā Sūtra sembrerebbe contenere una serrata critica alla dottrina dei dharma intesti come costituenti ultimi della realtà, propria delle scuole del Buddhismo dei Nikāya, segnatamente della scuola Sarvāstivāda. Tali dottrine assegnavano esistenza reale ai costituenti (dharma) dei fenomeni, anche se le stesse denunciavano la "vacuità" del soggetto che questi fenomeni percepiva, ovvero negavano la soggettività, l'io individuale (dottrina dell'anātman ) dello stesso soggetto. Questa "doppia vacuità" (vacuità del soggetto percipiente e dei fenomeni percepiti) pronunciata dai Prajñāpāramitā Sūtra andava a dunque a criticare i contenuti abhidharmici della scuola Sarvāstivāda, la quale giungeva a sostenere la presenza, nel soggetto che percepisce, di un dharma particolare, il prapti, che fungeva da ricettacolo per la sua retribuzione karmica. È chiaro che la dottrina della vacuità dei Prajñāpāramitā Sūtra ha dei precisi fondamenti, come abbiamo visto, negli stessi Āgama-Nikāya, tuttavia essa intende radicalizzare questi fondamenti e indicarli come il cuore (hṛd) della dottrina del Buddha Shakyamuni (Buddhadharma). In un altro famoso Prajñāpāramitā Sūtra, il Vajracchedikā-prajñāpāramitā-sūtra (Sutra della perfezione della saggezza che recide come un diamante, o più brevemente Sutra del diamante) si giunge, peraltro coerentemente con questi insegnamenti, a sostenere che «per quanto innumerevoli siano gli esseri in tal modo guidati verso il Nirvana proprio nessun essere è stato guidato verso il Nirvana. Perché? Se in un bodhisattva dovesse intervenire la nozione di un essere, egli non potrebbe venire chiamato bodhisattva. E perché? Non si dovrà chiamare bodhisattva colui nel quale interviene la nozione di un essere, o la nozione di un'anima vivente o di una persona».


cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Praj%C3%B1%C4%81p%C4%81ramit%C4%81_S%C5%ABtra



La dottrina Madhyamaka espressa nell'opera di Nāgārjuna si fonda sulla vacuità (sanscrito शून्यता śunyātā, cin.: 空 kōng, giapp. , tib. stong-pan-yid) e corrisponde ad una critica serrata delle dottrine ad impronta realistica dibattute all'epoca in India, soprattutto presso le scuole filosofiche Sāṃkhya e presso la scuola buddhista Sarvāstivāda, le quali, anche se in modo differente, ritenevano che ad alcuni concetti da loro espressi corrispondevano delle realtà sostanziali.
La critica di Nāgārjuna si rivolse soprattutto alla dottrina che sosteneva i fenomeni come dotati di natura propria o "essenza" (svabhāva), tale critica equivaleva a sostenere che nulla aveva una propria realtà intrinseca e indipendente se non nelle cause e condizioni (pratītyasamutpāda, cin. 十二因緣 shíèryīnyuán, jūni innen, tib. rten 'brel yan lag bcu gnyis) dalle quali il fenomeno scaturisce.
Questa critica fondata sulla vacuità è, secondo Nāgārjuna, un recupero dell'autentico insegnamento del Buddha Śākyamuni, ma Nāgārjuna introduce in questa critica anche la dottrina dell'interdipendenza dei fenomeni ogni cosa dipende nella sua natura da tutte le altre, ogni fenomeno preso di per sé è vuoto di una sua "sostanzialità" inerente (non esiste di per sé ma solo in relazione agli altri). I fenomeni hanno di fatto natura istantanea, il che significa che quando un fenomeno è venuto in essere ciò che lo causa è già necessariamente finito; l'importante implicazione filosofica che scaturisce da questa teoria è che non è possibile stabilire una comprovata continuità dei fenomeni, e perciò, che essi mancano di natura intrinseca . Così ogni fenomeno, fisico o mentale che sia, può manifestarsi proprio perché privo di una sua natura inerente.

Questa vacuità generalizzata si manifesta nella non dualità per la quale anche:
« Il saṃsara è in nulla differente dal nirvāna. Il nirvāna è in nulla differente dal saṃsara. I confini del nirvāna sono i confini del saṃsara. »
(Nāgārjuna)

https://it.wikipedia.org/wiki/M%C4%81dhyamika



giovedì 28 marzo 2013

La corretta postura per meditare - Yogananda


Dottrina del Vuoto



śūnyavāda
Scuola e dottrina buddhistica assertrice del «vuoto» (sanscr. śūnya), cioè della non esistenza assoluta; il suo più illustre esponente fu Nāgārjuna (2° sec. a.C.). È chiamata anche śūnyatā, e i suoi seguaci sono detti śūnyavādin. La dottrina ś. sostiene la vacuità del mondo fenomenico, così come di ogni concetto, compreso quello stesso del vuoto, che altro non è se non una designazione metaforica. Niente esiste realmente di per sé, ma solo in maniera relativa; concetti e definizioni hanno valore puramente strumentale, in quanto unici punti di appoggio su cui fondare la ricerca della verità.
cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/sunyavada/

La dottrina del vuoto (sunyata) è il tema di un’opera letteraria chiamata Prajna-paramita, o “Sapienza per passare all’altra sponda”, un’opera strettamente associata alla dottrina di Nagarjuna (circa 200 d.C.). Questa è la “dottrina del vuoto assoluto” Sunyavada (da sunya o sunyata = vuoto) di Nagarjuna, nota come il Madhyamika, la “ Via di mezzo, “ che dimostra la vanità delle cose di questo mondo conosciuta come nichilismo o “Relativismo assoluto”. E’ difficile capire come un punto di vista cosi totalmente negativo possa avere una conseguenza costruttiva. Nagarjuna non era così sciocco da negare effettivamente la realtà spirituale, ma rispondeva alle necessità psicologiche della sua epoca. La dialettica con la quale egli demolisce ogni concezione della realtà materiale, è solo uno stratagemma per rompere il circolo vizioso dell’attaccamento e il fine supremo della sua filosofia non è l’abietta disperazione del nichilismo ma la naturale e spontanea beatitudine (brahmananda) della liberazione. Il Sunyavada con la filosofia della negazione totale, cercava di promuovere il processo della visione interiore. Così, l’opera di Nagarjuna fu una confutazione sistematica d’ogni dottrina filosofica del suo tempo. È bene perciò ripetere che le negazioni si applicano non alla realtà stessa, ma alla nostra falsa idea della realtà.
Il contenuto positivo e creativo del Sunyavada non si trova nella filosofia stessa, ma nella nuova visione da essa evocata, e Nagariuna non rovina questa visione cercando di descriverla. Sunyata, come nirvana, è un concetto elusivo, anche se i filosofi Buddhisti successivi si sono sforzati di darne una definizione. Si diceva che al momento della morte una persona perfettamente illuminata raggiungesse il parinirvana, la realizzazione ultima, descritta come una forma di “assenza di morte”.
Questo supremo livello di perfezione Buddhista non si poteva descrivere adeguatamente perché trascende tempo, spazio, nascita, morte, e tutti gli aspetti convenzionali dell’esistenza mondana. La maggior parte dei testi Buddhisti descrivono il parinirvana semplicemente come uno stato al di là di qualsiasi livello noto di percezione sensoriale, lo stadio in cui si dice che l’individuo ha raggiunto il sunyata. Il Mahayana ha, comunque, un altro termine per definire la realtà, che è forse anche più indicativo di sunya, il vuoto. È la parola “qui e ora”, Tathata (dal sanscrito tat “quello”), si rivolge all’esperienza concreta distinguendola dall’astratto concettuale. Un Buddha è un Tathagata, o “colui che ha camminato cosi”, perché s’è risvegliato a questo mondo originale, esperienza che nessuna parola può comunicare. Poiché tathata è il vero stato del Signore Buddha e di tutti gli esseri in genere, si riferisce anche alla loro natura ontologica, la “natura di Buddha”.
Una delle dottrine basilari del Mahayana afferma che tutti gli esseri sono dotati della “natura di Buddha” (prajna) e quindi hanno la possibilità di diventare dei Buddha (degli illuminati), uguali a lui in qualità ma differenti in quantità. Simultaneamente uno e differenti da Buddha. Il termine “Buddha”, è usato per indicare la realtà spirituale stessa e non soltanto l’uomo risvegliato. Nel Mahayana perciò Buddha è considerato la personificazione della realtà spirituale, incarnazione dello Spirito Supremo, ed è oggetto di adorazione.

Hui Neng
Un giorno, il Quinto Patriarca disse ai suoi monaci di esprimere la loro saggezza in una poesia. Colui che avrebbe dimostrato la vera realizzazione della sua natura originale (Natura di Buddha) sarebbe stato ordinato Sesto Patriarca. Il monaco anziano, Shen Hsiu, era il più colto e scrisse i seguenti versi:

"Il corpo è l'albero della Bodhi,
la mente è come uno specchio chiaro;
Continuamente sforzati di lucidarlo,
Per non lasciare che vi si raccolga la polvere."

La poesia fu elogiata, ma il Quinto Patriarca sapeva che Shen Hsiu non aveva ancora trovato la sua natura originaria, d'altro canto, Hui Neng era analfabeta, così qualcuno scrisse per lui, sotto dettatura, la sua poesia, che diceva:

"Fondamentalmente la Bodhi non ha albero,
né esiste sostegno di alcuno specchio.
Poichè tutto è vuoto fin dall'origine,
Dove può mai posarsi la polvere?"

Il Quinto Patriarca fece finta di non essere impressionato da questa poesia, ma nel cuore della notte convocò Hui Neng. Il Quinto Patriarca gli diede le insegne del suo ministero, il manto e la ciotola del Patriarca. A Hui Neng fu detto di partire per il sud e di nascondere la sua illuminazione e la sua comprensione fino a che tempi più propizi fossero giunti per propagare il Dharma.

da http://blog.libero.it/FormaPlenaria/7449479.html


mercoledì 27 marzo 2013

U. G. Krishnamurti



Mala




Simbolo di un ciclo infinito, l'Akshamala trova la sua prima testimonianza nelle raffigurazioni delle grotte di Ajanta, risalenti al II° secolo a.C.
In origine l' Akshamala è una ghirlanda, chiamata “Bija” , un nome che ricopre diversi significati di grande importanza:
  • “Bija” è la traduzione dal Sanscrito di “seme”, ed è utilizzata per indicare l'origine e la causa di tutte le cose.
  •  nella scuola Buddhista Mahayana il termine “Bija” si riferisce alla “Teoria della Consapevolezza”, secondo la quale ogni azione produce delle “impressioni” (le Bija appunto), che rimangono nella nostra memoria cosciente. Il mondo esterno nasce quando questi semi germogliano, rilasciando il loro profumo.
  • Nell' Hinduismo, invece il termine “Bija” traduce una “sillaba mistica” (la più nota tra tutte è l' Ohm), contenuta nei mantra in questo caso i semi non hanno importanza particolare, ma servono a far mantenere la concentrazione durante i riti e le preghiere.
Per quest'ultimo motivo l' Akshamala è noto anche come “rosario Buddhista”: la sua funzione principale è appunto quella di manterene il calcolo delle preghiere senza distrazioni. Il rito prevede infatti che ad ogni preghiera la mano destra sposti uno dei grani in senso orario, mantenendo un profondo rapporto con i rituali buddhisti, che si svolgono sempre in senso orario.
I grani che compongono l' Akshamala sono 50, e corrispondono alle 50 sillabe mistiche principali, ma ve ne sono anche di 108, numero molto simbolico all'interno delle tradizioni Buddhista ed Hinduista.
Il numero 108 è infatti considerato “numero sacro”, in molte regioni indiane, legato alle pratiche dello yoga e del Dharma.
Secondo la tradizione Hinduista - ad esempio - le divinità hanno 108 nomi, ed è considerata una pratica sacra quella di recitare durante i riti religiosi questi nomi, contandoli sui grani dell' Akshamala (o Mala).
Allo stesso modo i monaci Zen indossano uno Juzu (simile all'Akshamala, però da polso) formato anch'esso da 108 grani.
Il Buddhismo tibetano crede esistano 108 peccati, e 108 bugie che gli uomini possono dire.
In Giappone, nei festeggiamenti di fine anno, si suona una campana per 108 volte, ognuna delle quali rappresenta una delle 108 tentazioni terrene che l'uomo deve superare per raggiungere il Nirvana.
108 è il numero delle intersezioni delle linee tra i Chakra, che convergono sulla linea del cuore e portano alla realizzazione e all' auto-coscienza.
Esistono anche Mala a 21 o 28 grani, che solitamente vengono utilizzati per le “prostrazioni”, un rituale di genuflessioni che si effettua per ringraziare il “Triratna” (Buddha, i suoi insegnamenti e la comunione spirituale).

La recitazione individuale sul rosario Buddhista, composto di 108 grani, prosegue per tutto il giorno e ogni Monaco fa il voto di recitare quotidianamente venti giri di rosario. Ogni grano del rosario, è illustrato con un’immagine di Buddha; su di esso il Monaco recita il chou ricevuto dal Maestro al momento dell’iniziazione: Namo O-Mi-To-Fo.
Quando si usa una mala si dice un mantra per ogni grano. Si gira il pollice in senso orario su ogni grano e, quando si arriva al "grano-stupa" si gira e si torna indietro per il verso opposto. Questo rende l'uso della mala più semplice perche' i grani non saranno cosi' stretti sul filo quando li si muove.

Durante la meditazione e' meglio essere totalmente consapevoli della visualizzazione del Buddha davanti o sopra a noi. Allora si puo' usare la sensazione della mala e la ripetizione del mantra per rafforzare l'esperienza dell'essere nel campo consapevole del Buddha e nel campo di benedizione. In questa meditazione completa la mente e' con il Buddha, la parola con il mantra e il corpo con la mala. Quando a volte capita, e capita spesso, che la mente non e' focalizzata o che la parola perde qualche mantra, una parte della mente sara' ancora in meditazione grazie al movimento della mala nella mano. In questo modo la mala puo' veramente essere di beneficio.

Ci sono diverse spiegazioni sul perche' la mala ha 108 grani. Ci sono otto diversi tipi di consapevolezza. Primo, ci sono cinque tipi di consapevolezza dei sensi: gusto, olfatto, vista, tatto e udito. Il sesto tipo e' come una "consapevolezza poliziesca" che tiene un occhio su cio' che accade. Il settimo tipo e' la "consapevolezza dell'immagazzinamento" e l'ottavo e' la consapevolezza che elabora la lingua, i simboli e gli oggetti all'interno di questo reame. Dopo aver raggiunto la Buddhita', questi otto tipi di consapevolezza sono trasformati in una nona "super consapevolezza" dove tutto e' conosciuto intuitivamente. Con questa consapevolezza le cose non sono sperimentate attraverso i sensi, ma direttamente attraverso le vibrazioni di ogni atomo del nostro corpo. Questa condizione e' possibile perche' lo spazio dentro e' di per se' consapevole. Lo spazio non e' un buco nero o un separatore, ma un collegamento con l'informazione che contiene. Quando gli otto tipi ordinari di consapevolezza diventano il nono, "la consapevolezza che conosce tutto e realizza tutto", cento Buddha si risvegliano dentro di noi in forma di 42 Buddha pacifici e 58 irati. Quindi il numero rappresenta gli otto tipi di consapevolezza prima dello stato totalmente realizzato e i cento Buddha che si manifestano grazie alla condizione illuminata della mente.

Quando si fanno le prostrazioni, si raccomanda l'uso di una mala piu' piccola, detta "di 1/4", che ha 27 grani. Questa grandezza va bene piu' o meno per tutte le mani.

[...]

Diffusosi in Giappone a partire dal'VIII sec. d.C., il rosario può essere utile, in quanto "mezzo didattico" o "mezzo abile" (skr. upaya o giapp. hoben), come segno di identità e come ausilio per purificare, col ricordo-consapevolezza, la mente e l'azione indirizzate verso la via del Buddha. Alle 108 contaminazioni corrispondono 108 caratteri e insegnamenti dell'Illuminato, di cui riportiamo, in Tab. 4, alcuni esempi (rispettivamente in col. dx e col. sn).

tab 4. Esempi dei 108 caratteri/insegnamenti del Buddha e contaminazioni umane

Retta fede -Mente non determinata

Mente pura - Mente contaminata

Mente gioiosa - Mente inquieta/turbata

Motivazione alla verità - Contaminazioni

Retta azione - Azione risultato di scorretti: atti fisici, parole, pensieri

Retta parola - Menzogna, parole scorrette, rudi, ingiuriose

Retto pensiero - Attaccamento, avversione, ignoranza

Compunzione - Spensieratezza, impunità

Sincerità - Falsità

Onestà - Disonestà


Il vuoto







[Nagarjuna è stato un ] filosofo indiano (probabilmente sec. II d. C.). Fra le maggiori personalità del pensiero indiano, fu il fondatore della scuola Mādhyamika. La sintesi del suo pensiero è raccolta in 400 versi del famoso Mādhyamika-Larika, ma la tradizione lo fa autore di molte altre opere, pervenuteci solo attraverso traduzioni cinesi. Con una logica stringata e profonda Nāgārjuna dimostra l'impossibilità di discutere sulla natura del mondo empirico, perché tutti i concetti sono contraddittori; le cose stesse non hanno una propria natura perché condizionate l'una dall'altra, per cui non si può stabilire quello che appartiene all'una e quello che è proprio dell'altra. Il loro essere individuale è solo apparenza e sommando tutte queste apparenze si ha la rappresentazione del mondo, che però è frutto solo dell'immaginazione umana. Al di là di queste apparenze è il vuoto, nel quale tutte le illusioni si annullano. Come si vede, Nāgārjuna approda a un monismo metafisico, dal quale trae in campo gnoseologico la teoria della doppia verità: la verità superiore della realtà e quella convenzionale delle apparenze. Queste non hanno realtà propria, ma servono tuttavia a indicare la verità attraverso il loro velo metaforico; in questo ordine hanno un'utilità pratica sulla via della liberazione, che si raggiunge con la consapevolezza che tutte le cose si riducono all'unico principio del vuoto; cade così ogni dualità e l'assoluto non ci appare più come esterno ai fenomeni, ma diventa identico al relativo; cade anche la contrapposizione fra saṃsāra (passaggio doloroso da una vita all'altra) e nirvāṇa (spegnimento di ogni desiderio), che diventano così una cosa sola.
cfr. http://www.sapere.it/enciclopedia/N%C4%81g%C4%81rjuna.html


È stato detto che, dopo il Buddha, la singola più importante figura nella tradizione buddista ed intera era un monaco chiamato Acharya Nagarjuna, qualche volta chiamato il Secondo Buddha. Come è il caso con molti giganti religiosi, noi conosciamo poco il Nagarjuna storico. Gli studiosi di solito lo mettono in qualche momento del tardo secondo secolo dell'Era cristiana, ma può essere vissuto cento anni prima o dopo quel periodo. Secondo la tradizione, Nagarjuna era un studioso-monaco all'Università di Nalanda, il grande centro buddhista di insegnamento nell'India di nord-est. Anche se noi lo conosciamo attraverso il suo corpo di scritture, noi realmente non sappiamo quanti “Nagarjuna” ci furono davvero, poiché è improbabile che tutti i lavori attribuiti a lui siano stati scritti dalla stessa persona. Ci sono potuti essere ben tre o quattro monaci tutti avendo scritto sotto lo stesso nome.

Noi sappiamo che le scritture di Nagarjuna sono la base per il Madhyamaka, o Scuola di Buddhismo della “Via di Mezzo,” e che Nagarjuna stesso divenne la figura più influente dello sviluppo del Buddhismo Mahayana che aveva cominciato ad emergere durante il primo secolo a.C. per disaccordi all'interno del sangha indiano sul percorso per l'Illuminazione. Questo nonostante il fatto che le sue scritture non menzionino mai molte delle idee di base del Mahayana, come l'ideale del bodhisattva o l'identità di forma e vuoto. Questo fa sorgere l'intrigante possibilità che questa figura importantissima nel sorgere del Mahayana possa non essere stato un Mahayana egli stesso.

La più famosa di gran lunga di tutte le scritture attribuite a Nagarjuna è, non casualmente, il più importante testo filosofico nella traditione buddhista, è il Mulamadhyamakakarika (“ Versi-radice sulla Via di Mezzo”). I Karika, come spesso sono chiamati, sono composti di approssimativamente quattrocento e cinquanta brevi stanze che infine furono divise in ventisette capitoli. Questi capitoli indirizzano ai problemi filosofici e notevoli del tempo, ivi incluse la natura della causalità e la condizionalità, moto ed azione, il sé, la sua sofferenza e il suo asservimento, il nirvana e il Buddha, ma le profonde intuizioni di Nagarjuna hanno provato di essere senza tempo.

Sfortunatamente per il lettore generale, il Sanskrito di Nagarjuna, anche se non mancante in grazia o precisione, è impersonale e denso. I Karika dovevano essere memorizzati piuttosto che letti, e normalmente sarebbero stati completati dal commentario orale di un insegnante. Ma anche in questo caso, la filosofia di Nagarjuna è notoriamente difficile capire (il che spiegherebbe perché lui sia più rispettato che studiato).

È probabile che dei buddhisti pensino a tale investigazione filosofica come incompatibile con la loro pratica contemplativa o devozionale. Ma questo è come separare la meditazione dalla saggezza. L'assorbimento nella propria pratica di meditazione sviluppa calma e chiarezza, tuttavia la pace della mente per se stessa non è la meta del percorso spirituale buddhista. Il Buddhismo enfatizza anche la visione profonda - vedere attraverso le costruzioni-pensiero a cui le nostre menti sono abitualmente aderenti - e sono queste forme di pensiero reificato che Nagarjuna decostruisce..

L'approccio filosofico di Nagarjuna era rivoluzionario, ma egli probabilmente non pensava a se stesso come a un radicale, che può essere il perché egli non enfatizzò il collegamento al Mahayana. Le sue innovazioni sono fermamente radicate negli insegnamenti originali del Buddha che rifiutò di discutere le questioni metafisiche. Disse il Buddha che dibattendo tali problemi come ad es. se il mondo aveva un inizio o no, o quello che accade ad una persona illuminata dopo la morte, era come essere stati colpiti da una freccia e rifiutare di essere curati finché non si conoscesse di che legno la freccia fosse fatta, chi l'avesse scagliata e così via. Invece di offrire un chiarimento speculativo del mondo, l'approccio del Buddha era pragmatico. Egli comparò il suo dharma ad una zattera che dovrebbe essere usata saggiamente per attraversare il fiume della vita e della morte. Una volta fatta la traversata tuttavia, non la si dovrebbe portare ulteriormente sulle proprie spalle. Ciononostante, negli anni dopo la morte del Buddha, i compilatori dell'Abhidharma (“l'insegnamento più alto”) estrassero un metafisica dai suoi insegnamenti.

Potremmo considerare la filosofia di Nagarjuna come una terapia linguistica: essa usa il linguaggio per rivelare come il linguaggio c'inganna. Noi presumiamo che il mondo che noi esperimentiamo è il vero mondo, ma questo è un inganno. Il mondo come noi normalmente lo percepiamo è una struttura linguistica. Aggrapparsi alle elaborazioni concettuali (il prapancha) causa sofferenza, poiché esse non riflettono con accuratezza come il mondo davvero è. Come risulta da ciò, la nostra prospettiva di senso comune del mondo non è buonsenso per niente, poiché una inconscia metafisica è costruita nei modi in cui noi usiamo il linguaggio ordinariamente.

La logica rigorosa di Nagarjuna analizza questi modi di pensare e rivela che essi sono incoerenti ed auto-contraddittori. Per conto suo questo è tutto quello che egli fa. Egli non tenta di sostituire i nostri modi illusori di pensiero con una comprensione corretta con la quale noi possiamo identificarci. Invece, la vera natura delle cose (incluso noi stessi) diviene apparente quando noi lasciamo andare le nostre illusioni. Il nostro tumulto emotivo e mentale è sostituito da una beatitudine o serenità (shiva) che non può essere afferrata ma può essere vissuta.

Buddhismo è “la Via di Mezzo,” tuttavia questo ha significato cose diverse in epoche diverse. Il Buddha scoprì un modo medio tra edonismo e ascetismo. Egli insegnò anche una via di mezzo tra eternalismo (il sé sopravvive alla morte) e l'annichilazione (il sé è distrutto alla morte), perché non c'è un sé e non c'è mai stato. Nagarjuna delucidò una posizione media tra l'essere (le cose esistono) e il non essere (le cose non esistono). Questa posizione di mezzo è shunyata, di solito tradotta come “vacuità.”

Shunyata non significa inesistenza o vuoto, né descrive qualche realtà trascendente come brahman o Dio. Shunyata significa semplicemente che le cose non hanno un'auto-essenza o un'essenza loro propria. Tutto sorge e passa via secondo le condizioni causali. Per Nagarjuna, shunyata è un concetto euristico, uno strumento a portata di mano per riferirsi a questa assenza di auto-esistenza. Tuttavia il termine spesso è incompreso. Per alcuni, shunyata vuole dire, che niente del tutto esiste in alcun modo. Tale nichilismo è pericoloso, perché poi esso non fa alcuna differenza fra quello che noi facciamo o non facciamo, e non c'è senso nel tentare di seguire un percorso spirituale. Questo fraintende il progetto di base di Nagarjuna che è non descrivere il mondo ma confutare i modi in cui noi (mal)comprendiamo il mondo.

Nagarjuna era aspramente critico verso quelli che interpretano shunyata come nulla: guai a quelli che lo sostengono, per lui è come prendere un serpente dalla parte sbagliata. Essi confondono due livelli diversi di verità, il convenzionale (il samvriti) e l'ultimo (il paramartha). Il convenzionale non è ultimamente vero, ma è necessario per indirizzare verso la verità ultima. Shunyata è una verità convenzionale che ci aiuta a renderci conto dell'ultimo che non può essere espresso in parole. Shunyata è essa stessa vuota, ma è solamente utile per indicare che nulla ha auto-esistenza. Shunyata ci aiuta a liberarci dall'attaccamento alle cose. Ma poiché shunyata ha solamente significato in relazione a qualche cosa che non sia vuoto, e poiché non ci sono cose auto-esistenti in senso ultimo, non c'è perciò nemmeno alcuna shunyata. Come con la zattera del Buddha; noi abbiamo bisogno di lasciare andare anche shunyata. La 'verità ultima' non si riferisce a qualche altra realtà trascendente. Come un altro Madhyamika, Atisha, più tardi l'espresse: “Se usate la ragione per esaminare il mondo convenzionale come appare a noi, non potete trovare niente che sia reale (che abbia auto-esistenza). Questo non-trovare è esso stesso la verità ultima.”

Nagarjuna si rivolgeva alle controversie filosofiche del suo tempo, ma le posizioni teoretiche che egli criticò erano basate sui modi ordinari in che noi umani comprendiamo noi stessi ed il nostro mondo. Il nostro inganno di base è la distinzione presa-per-garantita tra le cose e le loro attività. Ingannati dal linguaggio, noi dividiamo il mondo in nomi e verbi, soggetti e predicati. Noi comprendiamo il mondo come una raccolta di cose separate, interagenti in spazio esterno e tempo, che sorgono e passano via. Questo inganno include il modo in cui noi pensiamo a noi stessi, chiaramente. Noi di solito distinguiamo il nostro sé dalle nostre azioni e dagli eventi che ci accadono-incluse malattia, vecchiaia e morte, gli esempi classici di sofferenza che inspirarono la ricerca spirituale del Buddha. Poiché noi pensiamo al nostro proprio essere come separato dagli eventi, e da ogni altra cosa, noi anticipiamo con timore il fato inevitabile che attende il nostro sé individuale.

ANCORA E ANCORA, in modi diversi, le Karika confutano questa distinzione costruita dal pensiero tra oggetti e processi analizzando come questa stessa distinzione distorce la nostra comprensione di causalità, movimento, percezione, tempo e così via. L'approccio di base di Nagarjuna quasi sempre è lo stesso: La particolare distinzione che è esaminata è mostrata come incomprensibile, poiché, essendo stata fatta, i due differenti termini non possono più combinarsi insieme. Il problema di base, la fonte della nostra sofferenza è che i nostri modi di senso comune di capire noi stessi come separati da, ma anche nel mondo presume questa distinzione ingannevole.

Per esempio, consideriamo la relazione fra il sé ed i suoi stati mentali e fisici sempre in cambiamento (i propri pensieri, le emozioni, sensazioni fisiche ecc.). È il sé lo stesso come questi stati, o diverso da loro? Noi diciamo, “Io ho fame o io sono arrabbiato, o confuso,” il che implica che “io” sto continuamente cambiando. Ma noi abbiamo anche un senso di un “io” che persiste immutato: il “io” (o sé) che lavora è lo stesso “io” che riceve un assegno per paga alla fine del mese. Nella vita di ogni giorno noi continuamente rattoppiamo questa discordanza. Qualche volta comprendiamo noi stessi in un modo, qualche volta in un altro ma comprendendo noi stessi come cose che sia cambiano che permangono allo stesso tempo è realmente una contraddizione . Il chiarimento di Nagarjuna per la discordanza è che il sé è shunya, “vuoto.” In termini moderni, il mio senso del sé è, un instabile, sempre mutevole costruzione.

Nagarjuna applica il suo metodo anche a costruzioni buddhiste. Cos'è il Nirvana? Anch'esso è un concetto shunya. Se nirvana è qualche cosa di causalmente incondizionato, una realtà che non sorge o passa via, non c'è allora alcun modo di arrivare là, per noi. Se è condizionato, allora anch'esso passerà via, come ogni altra cosa condizionata. Nessuna alternativa offre salvezza spirituale. Lasciando andare i modi di pensare ai quali noi normalmente aderiamo ci permette di esperimentare il mondo come realmente è. Questo, “la fine delle elaborazioni concettuali (prapancha),” è come Nagarjuna si riferisce al nirvana.

Nagarjuna mai in effetti asserisce, come qualche volta si è pensato, che “il samsara è il nirvana.” Invece, egli dice che nessuna differenza può essere trovata tra loro. Il koti (il limite, confine) del nirvana è il koti del samsara . Sono due modi diversi di sperimentare questo mondo. Nirvana non è un altro reame o dimensione ma piuttosto la chiarezza e la pace che sorgono quando il nostro tumulto mentale finisce, perché gli oggetti coi quali noi ci siamo identificati sono stati compresi essere shunya. Le cose non hanno una realtà loro propria a cui possiamo aggrapparci, poiché esse sorgono e passano via secondo le condizioni. Né noi possiamo aggrapparci a questa verità. Il verso più famoso nelle Karika (25:24) riassume magnificamente questo: “La massima serenità è il venire a riposo di tutti i modi di ‘prendere le cose', il riposo delle cose nominate. Nessuna verità è stata insegnata dal Buddha per chiunque ovunque.”

La completezza metodologica con la quale Nagarjuna usa concetti per minare i modi costruiti concettualmente con cui noi capiamo il mondo ha condotto da molto tempo i critici, BuddhistI e non-buddhisti, Orientali e Occidentali, all' l'accusa di nichilismo. Effettivamente, è probabile che la scuola di Yogachara di Buddismo che enfatizza la realtà della coscienza, sia sorta in parte come una risposta ad interpretazioni così nichilistiche. Evidentemente alcuni tardi pensatori buddhisti erano preoccupati che l'approccio esclusivamente negativo di Nagarjuna - usare il linguaggio solamente, per rimuovere gli inganni creati dal linguaggio, avesse bisogno di essere integrato da descrizioni più positive del percorso buddhista e della sua meta. In ultimo i due approcci Madhyamaka e Yogachara furono capiti come complementari, offrendo quella che è generalmente accettata come la filosofia di base Mahayana . 

cfr. http://sinicus.altervista.org/Testi%20di%20Meditazione/INTRODUZIONE%20A%20NAGARJUNA..htm


Questo è divertente!
Un cerchio vuoto che diventa serpente.
E questo è l'anno del serpente.


martedì 26 marzo 2013

Il bodhisattva Avalokitesvara







Un gruppo di persone stava viaggiando una volta attraverso un deserto, quando accadde che tre di loro deviarono la via e si persero. Stanchi ed assetati questi tre vagarono per il deserto nella speranza di trovare un luogo per far una sosta. Finalmente la loro ricerca finì quando scoprirono un pozzo. Il primo uomo corse verso di esso, guardò in giù e vide che era pieno di deliziosa ambrosia liquida. Lui immediatamente gridò in un gesto di frenetica euforia e saltò giù senza più fare ritorno. Il secondo pure fece lo stesso. Infine il terzo uomo si diresse quietamente fino al pozzo, sbirciò oltre l’alto muro, poi si voltò e tornò indietro verso il deserto a cercare gli altri suoi amici viaggiatori, per aiutare a guidarli in questo paradiso.  
Anche la vita di un bodhisattva è fatta così. In stretti termini canonici si definisce ‘bodhisattva’ un individuo che scopre la sorgente della Verità Ultima, meglio nota come Nirvana, ma posticipa la sua propria Illuminazione finché non ha guidato tutti i suoi amici esseri senzienti a questa stessa sorgente della Realizzazione. Un compito formidabile, come minimo. Il Sentiero del bodhisattva è così una estrema abnegazione del proprio ‘sé’. Secondo il Lankavatara sutra (4 secolo d.C.): 
"Un bodhisattva desidera aiutare tutti gli esseri a raggiungere il nirvana. Egli deve perciò rifiutare di entrare lui stesso nel nirvana, perché apparentemente non può rendere alcun servizio agli esseri viventi dei mondi dopo il suo proprio nirvana. Lui si trova così nella posizione alquanto illogica di indicare la Via del nirvana agli altri esseri, mentre lui resta in questo mondo di sofferenze per far il bene a tutte le creature. Questo è il suo grande sacrificio per gli altri. Lui ha fatto il grande Voto: "Io non entrerò nel nirvana finale prima che tutti gli esseri siano stati liberati". Lui non realizza la suprema Liberazione per sé-stesso, poiché non può abbandonare gli altri esseri al loro destino. Egli dice: "Io condurrò tutti gli esseri alla liberazione. Io starò qui fino alla fine, anche nell'interesse di un solo essere vivente." 
La stessa parola 'bodhisattva' è fautrice di una ricca analisi etimologica. Essa è composta di due parole: 'bodhi' e 'sattva', che connotano entrambe significati profondamente spirituali. Bodhi significa "risveglio" o "illuminazione", e sattva significa "essere senziente". Sattva ha anche radici etimologiche che significano "intenzione", intendendo l'intenzione di illuminare gli altri esseri. Così la parola composta ‘bodhisattva’ significa la vera essenza degli esseri divini a cui si riferisce. 
L’ estetica Buddista, come molta sua letteratura, riporta le verità spirituali nella più semplice maniera accessibile per tutti. Anche i vari bodhisattva dominano la scena dell’arte Buddista, illustrando quest’astratta concettualizzazione in una maniera così forte come i vari miti che li circondano. A tal riguardo, il bodhisattva più prominente è Avalokiteshvara
La parola 'Avalokiteshvara' deriva dal verbo Pali 'oloketi ’ che significa "guardare a, guardare giù o su, esaminare o ispezionare". Il termine avalokita ha un significato attivo, ed il nome significa, "il signore che vede (il mondo con pietà)". Il tibetano equivalente è spyanras-gzigs (il signore che guarda con occhi). Il testo noto come Karanda-vyuha (8 secolo d.C.) spiega che egli è chiamato così perché lui vede con compassione tutti gli esseri che patiscono i mali dell’esistenza. Qui è interessante notare che una caratteristica dominante nella descrizione di Avalokiteshvara è la sua capacità di "vedere" la sofferenza degli altri. Nessuna meraviglia quindi che lui è rappresentato con mille occhi che spesso simboleggiano la sua onni-inclusiva abilità di vedere con compassione la sofferenza degli altri, condividendo così il loro dolore, un primo passo verso il loro sollievo ultimo. Non solo, ma egli ha inoltre anche mille mani che lo aiutano nell’enorme compito di liberare gli innumerevoli esseri verso il loro ultimo adempimento spirituale. La mitologia associata ad Avalokiteshvara è come la sua iconografia, molto interessante: 
Con i suoi sforzi sostenuti, alla fine Avalokiteshvara fu in grado di portare all’illuminazione tutti gli esseri senzienti, gestendo la salvezza per tutti. Entusiasta, egli rivelò il successo dei suoi sforzi al suo spirituale padre, Amitabha. Amitabha gli chiese di guardarsi dietro. Girandosi indietro, Avalokiteshvara vide che il mondo si era riempito di nuovo con nuovi sofferenti che attendevano la loro fuga dal ciclo continuo di nascita, morte e rinascita. Sprofondando nella disperazione, gli occhi di Avalokiteshvara versarono lacrime di compassione. Egli pianse in modo così pietoso che gli scoppiò la testa. Amitabha tentò di riassemblarne i pezzi ma non vi riuscì completamente. Nella confusione che ne seguì egli mise insieme nove facce complete, ognuna con un'espressione gentile. Aldisopra egli vi mise la testa demoniaca di Vajrapani che ha la funzione di scacciar via il male, e infine, in cima mise la sua stessa testa per assicurarsi che in futuro tale evento non riaccadesse. 
Egli quindi siede così a guardia sulla cima delle file di teste di Avalokiteshvara, per rendere definitivo il fatto che Avalokiteshvara nella sua compassione infinita non sarà più portato via, arrivando alla sua propria distruzione.

lunedì 25 marzo 2013







MAHA PRAJNA PARAMITA SUTRA



Il Bodhisattwa Avalokiteswara
Praticando la prajnaparamita
Realizzò che i cinque elementi sono vuoto
Sanando tutte le sofferenze.
Oh Sariputra
La forma non è differente dal vuoto
Il vuoto non è differente dalla forma
Forma è vuoto, vuoto è forma
Ciò vale anche per gli altri quattro elementi:
sensazione, percezione, discriminazione, coscienza.
Oh Sariputra
Tutti i dharma sono vuoto quindi
Non hanno né inizio né fine
Non sono impuri né puri
Non si accrescono né diminuiscono.
Poiché tutte le cose sono vuoto
Non c’è né forma né sensazione, percezione,
impulsi, coscienza
Non esistono occhio, orecchio, naso, lingua,
corpo, intelletto
Non esiste né colore né voce, olfatto, gusto,
tatto, legge
Non c’è né il mondo che si vede
né il mondo della coscienza
Non ci sono tenebre né fine delle tenebre
Né vecchiaia né morte,
né inesistenza di vecchiaia e di morte
Non ci sono le quattro verità:
sofferenza, causa della sofferenza,
distruzione della sofferenza, ottuplice sentiero.
Non esiste né saggezza né miglioramento in quanto
Non c’è nulla da raggiungere.
Il bodhisattwa mediante la prajnaparamita
Supera tutti gli ostacoli ed è libero
Essendo libero non esiste più paura
Gli errori e le illusioni vengono allontanati
E si arriva al Nirvana.
Tutti i budda del passato, presente e futuro
Mediante la prajnaparamita
Ottengono l’illuminazione giusta e perfetta
Perciò il mantra della prajnaparamita
E’ il grande mantra
Il mantra della grande chiarezza
Il mantra supremo
Il mantra incomparabile
E’ capace di togliere tutte le sofferenze
E’ verità e non falsità
Esso dice: ANDATO, ANDATO,
ANDATO ALL’ALTRA RIVA
E APPRODATO ALL’ALTRA RIVA.
BODHI SWAHA

cfr. http://www.zenshinji.org/roma-appio/?page_id=79

giovedì 21 marzo 2013

Mitra





Voglio fare un esempio di quello che ho detto negli ultimi post, quelli sul relativismo.
Prendiamo una ricerca di storia delle religioni: approfondiamo il mito di Mitra, ad esempio.
Ho delle opinioni, in merito, certo: ci ho scritto sopra un capitolo del mio libro.
Sono anche abbastanza convinto delle conclusioni a cui sono arrivato.
Appunto, abbastanza.
Non posso certo pretendere di essere assolutamente nel giusto.
Ecco quindi, che il modo migliore per partire è raccogliere i fatti, e le differenti opinioni.
Quello che segue vuole illustrare questo modo di procedere.

Iniziamo dall'Enciclopedia:

Mitra (vedico Mitra-, avestico Mithra-) Divinità indoiranica associata con Varuna; insieme rappresentano i due aspetti, diurno e notturno, del cielo e due aspetti dell’ordine umano e cosmico: Varuna punisce i trasgressori, M. garantisce i patti e protegge i giusti.
La menzione più antica di M. è in un’enumerazione di divinità del pantheon mitannico del 14° sec. a.C. Nel mazdeismo iranico M. è solo uno degli yazata «venerabili», non un dio; ma nomi di feste e residui di miti dimostrano che, anteriormente alla riforma monoteistica di Zaratustra, M. era un dio importante nella religione iranica e tale rimaneva nella fede popolare nonostante il monoteismo della teologia ufficiale. Pervenuto, con l’espansione persiana, in Babilonia, M. entrò in formazione sincretistica con il dio solare babilonese Shamash, quindi, durante lo sgretolamento dell’Impero persiano, diventò, nell’Asia Minore, oggetto di un culto particolare (mitraismo ), che dalle comunità persiane sopravvissute nell’Asia Minore si diffuse successivamente nell’Impero romano, sotto forma di misteri.
I misteri di M. si distinguono nettamente dagli altri misteri d’origine orientale soprattutto per tre caratteristiche fondamentali: l’iniziato non pretende di identificarsi con il dio; il dio non muore e non risorge; accanto al dio non figura alcuna grande divinità femminile. M. è modello e protettore dell’iniziato. Il mito sacro del mitraismo si ricostruisce soprattutto in base alle numerose raffigurazioni ritrovate nei mitrei: M. nasce da una roccia (petra genetrix) con una fiaccola e con un coltello nelle mani; inizia ai propri misteri il Sole; il dio sale sul carro del Sole; con un colpo di freccia fa scaturire l’acqua da una roccia; infine, ed è questo il suo atto centrale, uccide il toro cosmico che, morendo dà vita all’universo. Il carattere cosmico di M. è sottolineato dalla presenza nei suoi santuari di due figure, Cautes e Cautopates (nomi di M. stesso), una con la fiaccola tenuta in alto, l’altra con la fiaccola abbassata, e messe in rapporto con l’aurora e con la primavera la prima, con il tramonto e l’autunno la seconda. Nel mitraismo vi era una gerarchia iniziatica di sette gradi, ciascuno riferito a una delle sette sfere planetarie. Queste ultime hanno un’importanza anche nell’escatologia mitraica: con l’aiuto di M., l’anima dell’iniziato passa attraverso le sette sfere, deponendo in ciascuna una delle passioni umane, per arrivare pura nel cielo. Il carattere vittorioso (invictus) del dio, la disciplina gerarchica dell’iniziazione, l’antica idea persiana dell’eterno combattimento contro il male danno a questi misteri un carattere guerriero che spiega il favore che essi incontrarono nell’esercito e presso gli imperatori stessi.
Infatti il mitraismo, introdotto a partire dal 1° sec. d.C. in Italia, si sparse in tutto l’Impero, specie nelle province di confine dove fu propagato dalle guarnigioni militari. L’imperatore Commodo vi si fece iniziare e altri imperatori successivi, fino a Giuliano l’Apostata, contribuirono al suo prestigio. Il mitraismo penetrò così, benché non nella sua stretta forma di misteri, anche nella religione pubblica, dove venne identificandosi con il culto del Sole. Fu rivale potente del cristianesimo e tra le due religioni vi fu probabilmente qualche influsso reciproco (il Natalis Solis mitraico, per es., fissato al 25 dicembre, solstizio invernale, passa nel cristianesimo come ‘Natale’; ma l’ultima cena attribuita, a quanto pare, a M. come fondamento del banchetto rituale mitraico sembra un calco pagano sull’ultima cena di Gesù Cristo).
Il luogo dove si svolgeva il culto mitraico nel mondo ellenistico-romano era il mitreo , detto in latino spelaeum, per analogia con la primitiva grotta natale del dio. Non potendo che rarissimamente avere grotte a disposizione per svolgere il culto, gli iniziati cercarono almeno di sfruttare nei centri urbani ambienti sotterranei come quelli di terme o semisotterranei come criptoportici.
Nei rilievi e nei gruppi a tutto tondo trovati nei mitrei, M. appare giovanile con testa sbarbata e ricciuta sormontata dal cappello frigio. Indossa il costume orientale con tunica manicata e brache aderenti, ha un mantello svolazzante trapuntato con le sette stelle. È per lo più raffigurato nell’atto di uccidere il toro accosciato, sul cui dorso poggia il ginocchio sinistro, in composizione triadica con Cautes e Cautopates ai lati della bestia.
cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/mitra/



Un punto di vista cattolico...
http://camcris.altervista.org/mitra.html


Un punto di vista non cattolico ...
http://bugiesvelate.blogspot.it/2012/02/mitraismo-e-cristianita-il-perfetto.html#axzz2OAdqWBUO

Altri punti di vista,,,

http://www.satorws.com/mitraismo.htm
http://www.angolohermes.com/approfondimenti/mitraismo/mitra.html

Per saperne di più...
http://www.romasotterranea.it/mithraismo.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Mitraismo
http://it.wikipedia.org/wiki/Cristianesimo_e_Mitraismo
http://it.wikiquote.org/wiki/Mitraismo
http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Religioni/MITRAISMO.html

Per curiosità, date un'occhiata a nche a questo:
Nel 272 Aureliano sconfisse la principale nemica dell'impero (riunificandolo), la Regina Zenobia del Regno di Palmira, grazie all'aiuto provvidenziale della città stato di Emesa (arrivato nel momento in cui le milizie romane si stavano sbandando). L'imperatore stesso dichiarò di aver avuto la visione del dio Sole di Emesa, che interveniva per rincuorare le truppe in difficoltà nel corso della battaglia decisiva.
In seguito, nel 274, Aureliano trasferì a Roma i sacerdoti del dio Sol Invictus e ufficializzò il culto solare di Emesa, edificando un tempio sulle pendici del Quirinale e creando un nuovo corpo di sacerdoti (pontifices solis invicti). Comunque, al di là dei motivi di gratitudine personale, l'adozione del culto del Sol Invictus fu vista da Aureliano come un forte elemento di coesione dato che, in varie forme, il culto del Sole era presente in tutte le regioni dell'impero. Anche molte divinità greco-romane, come Giove e Apollo, erano identificate con il sole. Inoltre, come riferisce Tertulliano, molti credevano che anche i cristiani adorassero il sole.
Sebbene il Sol Invictus di Aureliano non sia ufficialmente identificato con Mitra, richiama molte caratteristiche del mitraismo, compresa l'iconografia del dio rappresentato come un giovane senza barba.
Aureliano consacrò il tempio del Sol Invictus il 25 dicembre 274, in una festa chiamata Dies Natalis Solis Invicti, "Giorno di nascita del Sole Invitto", facendo del dio-sole la principale divinità del suo impero ed indossando egli stesso una corona a raggi. La festa del Dies Natalis Solis Invicti divenne via via sempre più importante in quanto si innestava, concludendola, sulla festa romana più antica, i Saturnali.
La celebrazione del Sole Invitto proprio il 25 dicembre è testimoniata nel Cronografo del 354 insieme alla testimonianza del Natale cristiano. La prima testimonianza della celebrazione del Natale cristiano successiva al Cronografo del 354 risale al 380 grazie ai sermoni di san Gregorio di Nissa. La festa del Natale di Cristo, infatti, non è riportato nei più antichi calendari delle festività cristiane e anche in seguito veniva celebrato in date estremamente differenti tra loro. Durante il regno di Licinio la celebrazione del Sol Invictus si svolse il 19 dicembre, data forse più prossima al solstizio astronomico nel calendario allora in vigore. La festa, inoltre, del Sole Invitto era celebrata anche in altre date.
Anche l'imperatore Costantino sarebbe stato un cultore del Dio Sole, in qualità di Pontifex Maximus dei romani. Egli, infatti, raffigurò il Sol Invictus sulla sua monetazione ufficiale, con l'iscrizione SOLI INVICTO COMITI, "Al compagno Sole Invitto", definendo quindi il dio come un compagno dell'imperatore.
Con un decreto del 7 marzo 321 Costantino stabilì che il primo giorno della settimana (il giorno del Sole, Dies Solis) doveva essere dedicato al riposo:
(LA)
« Imperator Constantinus.Omnes iudices urbanaeque plebes et artium officia cunctarum venerabili die solis quiescant. ruri tamen positi agrorum culturae libere licenterque inserviant, quoniam frequenter evenit, ut non alio aptius die frumenta sulcis aut vineae scrobibus commendentur, ne occasione momenti pereat commoditas caelesti provisione concessa. * const. a. helpidio. * <a 321 pp. v non. mart. crispo ii et constantino ii conss.> »
(IT)
« Nel venerabile giorno del Sole, si riposino i magistrati e gli abitanti delle città, e si lascino chiusi tutti i negozi. Nelle campagne, però, la gente sia libera legalmente di continuare il proprio lavoro, perché spesso capita che non si possa rimandare la mietitura del grano o la semina delle vigne; sia così, per timore che negando il momento giusto per tali lavori, vada perduto il momento opportuno, stabilito dal cielo. »
(Codice Giustiniano 3.12.2)

Mosaico del III secolo delle grotte Vaticane sotto la basilica di San Pietro, sul pavimento della tomba di papa Giulio I: è stata avanzata l'ipotesi che sia una raffigurazione di Cristo nelle vesti del dio-sole Helios/Sol Invictus alla guida del carro
Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Sol_Invictus

mercoledì 20 marzo 2013

Il Principio di relatività.





Bene, relativismo e assolutismo, si diceva.
Relativismo culturale, etico, morale, religioso, filosofico e scientifico. Anche la filosofia della scienza ha il suo relativismo; anche la politica non è da meno.
Perché in certi campi è non solo accettabile e tollerato, ma perfino auspicabile, mentre in altri viene avversato, considerato negativamente e criticato?
In politica, scienza e filosofia, il relativismo è considerato una conquista, un'importante lascito del secolo delle riforme: una liberazione dalle pastoie della rigidezza di un'età oscura. In queste branche del sapere ha significato il trionfo del libero pensiero, della libera ricerca e, soprattutto, della continua ricerca. Ha voluto dire restituire importanza all'individuo, alle sue capacità di pensare, di apportare modifiche ai modi di pensare ufficiali e di portare nuovi contributi. Non solo: significava la libertà di sbagliare e di riconoscere da soli i propri errori.
Se questo atteggiamento valenze così positive in certi settori, perché non può essere adottato anche in altri o addirittura in tutti.
La definizione di questa parola è la seguente: ogni concezione che afferma il valore relativo della conoscenza umana, ogni concezione che nega l'esistenza di valori assoluti; ogni concezione secondo cui  non esistono  principi generali che consentano di giudicare  i valori e le istituzioni delle singole culture e civiltà e, infine, la caratteristica di ciò che è relativo, non immutabile e non definitivo.
Interessante è anche il suo contrario: il dogmatismo, l'assolutismo.
Il relativismo, quindi, ha alla sua base il fatto che sia impossibile raggiungere una conoscenza assoluta e universamente valida, non che sia impossibile raggiungere una conoscenza.
La conoscenza, la verità, il valore raggiunto, sarà solo relativo alle condizioni che hanno portato alla sua definizione ed alle premesse che abbiamo posto all'inizio della ricerca. Tra le quali quella che ogni conclusione è sempre in attesa di verifica, contraddizione, eventuale smentita ed auspicabile superamento.
La ricerca è infinita.
La realtà stessa è infinita.
L'osservatore, invece, è finito e immerso nella realtà stessa che vuole indagare, non è esterno: la sua capacità di giudizio è forzatamente relativa.
Anche la capacità di intendere eventuali verità rivelate dall'esterno, che saranno comprese solo in misura relativa alle promesse date, è relativa.
Tutto questo, come dicevo, in politica, filosofia e antropologia culturale, è ampiamente accettato.
Nelle scienze, che pure si basano sullo stesso principio di relatività della conoscenza, spesso l'orgoglio umano e la nostra stessa necessità di ordine fanno sì che si possa scadere in un'eccessiva fiducia nelle ultime, e maggiormente condivise, conclusioni; vedi il cosiddetto modello standard o la critica xche lo stesso Einstein oppose alla meccanica quantistica.
Nei settori etico, morale e spirituale, invece no, il principio di relatività è considerata una bestemmia, un pericolo mortale, un baratro di disordine e distruzione.
Tale concezione  è basata su di un errore strutturale: il relativismo non significa rinuncia a cercare valori fondanti.
Non vuol dire che non esiste la verità.
Il vero senso del relativismo è che ogni valore fondante, ogni verità, ogni conclusione, ogni teoria o concezione filosofica, deve essere inteso in senso non assoluto e quindi che nulla può portare alla censura di valori (  conclusioni, teorie, concezioni etc.) che gli altri hanno posto alla base della loro vita o della propria condotta o della propria concezione del mondo.
La mancanza di verità o l'impossibilità di raggiungere un qualche tipo di conoscenza, non sono vconclusioni che si possono desumere dal relativismo. Anzi, ne sono la negazione, perché sono un dire di no e non un dire forse.
La negazione della possibilità di raggiungere un qualche tipo di conioscenza, come anche l'assenza di valori fondanti o verità spirituali, sono un altro tipo di assolutismo, di dogmatismo, un modo per dire che le cose stanno così perché stanno così e STOP!
Il principio di relatività in questo modo ci prospetta scenari tutt'altro che caotici, sempre che la libertà di pensiero, l'onestà intellettuale e il rispetto delle opinioni altrui non siano visti come agenti del caos.
Ricordiamoci che il contrario del relativismo è apputno l'assolutismo, ovvero l'ammettere una sola visione, escludendo le altre.
Escludere significa proibire, negare, epurare, contrastare.
Se la realtà è infinita, infinita è la somma delle ipotesi possibili.
Infinita è la verità stessa.

Postilla
Allora perché punire chi commette del male? Perché creare delle leggi?
Ognuno, seguendo quest'opinione ha diritto di seguire la propria visione della vita, anche se è criminale.
Sembra una logica conseguenza di quanto ho setto finora.
Non lo è!
Commettere il male, cioé fare del male agli altri in modi diversi, significa violarne lo spazio vitale, affettuivo, culturale e così via: è una forma di imposizione della propria visione sugli altri. E' una forma di assolutismo.

martedì 19 marzo 2013


Tutto di me

 
Sono arrivato all’idea del Blog dopo un bel po’ di tempo passato a rifletterci sopra. Prima di allora ne era trascorso ancora di più per arrivare a mettere per scritto tutte le riflessioni di oltre la metà della mia vita.
Ricordo di aver preso in mano la Bibbia per la prima volta che dovevo avere più o meno dodici anni, durante il mio primo ritiro spirituale estivo, in quell’occasione organizzato dall’Azione Cattolica Diocesana. Ero il più piccolo in un gruppo che comprendeva ragazzi  dai sedici ai diciannove anni, perciò non avevo molti punti di contatto con i miei compagni; oltretutto una tremenda e lagnosa nostalgia di casa mi prese alla gola chiudendo ogni possibile rapporto. Per trovare un qualche tipo di soluzione, una dei responsabili, Lucia, sapendo anche del mio amore per la lettura, mi mise in mano una Bibbia e io me la lessi tutta, praticamente d’un fiato.
Continua >>
http://chsolu.blogspot.it/p/tutto-di-me.html

Assolutismo








assolutismo s. m. [der. di assoluto2, sul modello del fr. absolutisme, ingl. absolutism]. –

1. Regime politico in cui chi regna o chi governa ha potere assoluto, illimitato, e non è quindi soggetto al controllo delle leggi o di altri organismi politici e sociali. Età dell’a., denominazione convenzionale usata per indicare il periodo di storia europea continentale compreso tra il 1660 e il 1789, caratterizzato in molti stati europei (soprattutto in Francia) da una monarchia accentratrice.

2. Carattere o atteggiamento d’intransigenza, proprio di chi pensa e agisce o vuole imporre la sua volontà e le sue decisioni senza accettare opposizioni o limitazioni.

Sinonimi e Contrari
assolutismo s. m. [der. di assoluto, sul modello del fr. absolutisme, ingl. absolutism]. - 1. (polit.) [regime in cui chi regna o chi governa ha potere assoluto, illimitato] ≈ autocrazia, dispotismo, dittatura, tirannia, tirannide, totalitarismo. ↔ democrazia. ‖ costituzionalismo, liberalismo, parlamentarismo. 2. (estens.) [atteggiamento di chi vuole imporre la sua volontà senza accettare opposizioni] ≈ autoritarismo, dispotismo, prepotenza. ↔ arrendevolezza, bonarietà, tolleranza.
Periodo della storia europea continentale compreso tra 1660 e 1789, che ha nella sua prima fase (1660-1748) come misura di giudizio la Francia di Luigi XIV, nella seconda (1748-89), detta età dell’a. illuminato, l’Austria di Maria Teresa e Giuseppe II e la Prussia di Federico II. Carattere essenziale dell’a. è il rafforzamento del potere statale, dal punto di vista anzitutto militare e finanziario: nasce lo Stato burocratico e accentratore, i cui organi dipendono direttamente dal re, sovrapponendosi o facendo scomparire i precedenti organi di origine feudale; la vecchia aristocrazia feudale si trasforma in nobiltà di casta, priva di forza politica; si formano eserciti nazionali di tipo moderno. Sul piano religioso, il sovrano dello Stato sottomette a sé le Chiese nazionali. 
In questa linea giurisdizionalistica s’inserisce con particolare vigore la politica ecclesiastica, detta giuseppinismo , attuata da Giuseppe II negli Stati asburgici. In campo economico sono caratteristici il progressivo aumento della ricchezza mobiliare e l’influenza del fattore finanziario nella vita politica; nel campo sociale, il consolidarsi e l’affermarsi della borghesia che, particolarmente in Francia, si sviluppa in alleanza con la monarchia e perviene a un’egemonia culturale tale da trasformare l’a. in a. illuminato, dando così vita all’Età delle riforme

lunedì 18 marzo 2013

Relativismo





Concezione fondata sul riconoscimento del valore soltanto relativo, e non oggettivo o assoluto, sia della conoscenza, dei suoi metodi e criteri (r. gnoseologico ), sia dei principi e dei giudizi etici (r. etico ), variando tutti da individuo a individuo, da cultura a cultura, da epoca a epoca.

1. Dalle origini al pensiero modernoCome orientamento filosofico il r. può essere fatto risalire a Protagora, che con la famosa formula dell’«uomo misura di tutte le cose» sottolineò il ruolo ineliminabile dell’opinione nella conoscenza umana, negando la possibilità di conseguire una conoscenza oggettiva e immutabile. Sia in Protagora sia nella sofistica il r. investe non soltanto l’ambito della conoscenza, ma anche quello dell’etica, dove si caratterizza per la negazione dell’esistenza di giudizi e principi morali validi in assoluto. Nel pensiero moderno il r. si ripropone soprattutto in connessione con lo scetticismo, come nel caso di Montaigne, che, sotto le suggestioni dei radicali mutamenti intervenuti nel sapere scientifico e delle recenti scoperte geografiche, metteva in evidenza da un lato la sostanziale precarietà e relatività storica di quelle che erano un tempo concepite come verità assolute, dall’altro la mancanza di reale oggettività dei giudizi sulle culture ‘barbare’ del Nuovo Mondo, fondati su un’illegittima assolutizzazione dei canoni di valutazione vigenti nella cultura europea.

2. R. storicisticoUn r. conseguente e sistematico si sviluppò a partire dalla fine del 19° sec., entro la corrente di pensiero nota come storicismo. La relativizzazione storica di ogni manifestazione culturale e la molteplicità delle visioni del mondo (Weltanschauungen) rappresentano gli esiti più significativi dello storicismo di W. Dilthey, che intendeva così restituire ogni singola forma di vita, sistema di valori, religione e filosofia a quella dimensione storica, parziale e determinata, entro cui sorgono e si esauriscono. Tali esiti sarebbero poi stati radicalizzati da O. Spengler, per il quale ogni cultura è un organismo vivente, in quanto tale sottoposto a un ciclo vitale che va dalla nascita alla maturità alla decadenza. Nella prospettiva del r. storicistico rientra in qualche misura lo stesso M. Weber, che, pur teorizzando l’oggettività della conoscenza storica attraverso la delineazione di criteri epistemologici di derivazione positivistica, riconosceva tuttavia l’inevitabile relatività, o ‘politeismo’, dei valori.

3. Il 20° secoloDopo l’esaurirsi dell’esperienza storicistica, il r. ha interessato altri settori culturali del 20° sec., come la sociologia, la filosofia analitica e la filosofia della scienza. Nella sociologia della conoscenza di K. Mannheim il r. si presenta nella forma del condizionamento storico e sociale dello stesso discorso conoscitivo. Relativistiche possono essere considerate anche le riflessioni di L. Wittgenstein sulla dipendenza dalle convenzioni, dalle pratiche sociali e dalle «forme di vita» dei vari «giochi linguistici» che presiedono alla comunicazione, alle relazioni interindividuali nonché alle procedure conoscitive e ai criteri di razionalità. In parte influenzate da Wittgenstein, ma non del tutto estranee alla sociologia della conoscenza e allo storicismo, sono poi le tesi sostenute da T. Kuhn, che, relativizzando la conoscenza scientifica ai contesti culturali e storicamente mutevoli dominati dai «paradigmi», è pervenuto a un’immagine della storia della scienza in cui ogni epoca ha propri presupposti metafisici, propri criteri conoscitivi, proprie procedure di verifica e proprie verità.
Un vivace dibattito ha caratterizzato la filosofia della scienza e del linguaggio più recenti, e il r. dei paradigmi, dei «quadri concettuali» e delle «forme di vita» è stato contestato da K.R. Popper, W.V.O. Quine, D. Davidson e H. Putnam, che hanno sottolineato in vario modo il suo carattere autoconfutante, che, mentre asserisce la relatività di ogni conoscenza, presupposto e valore, assume tuttavia l’oggettività e la validità incondizionata del suo punto di vista.

4. R. culturaleNel più ampio settore antropologico si parla di r. culturale a proposito degli orientamenti sviluppati dalla scuola di F. Boas che contrappongono l’analisi delle singole culture, storicamente e spazialmente determinate, alla loro analisi comparativa, finalizzata a individuare l’esistenza di principi comuni. Il riconoscimento della molteplicità culturale e delle differenze si traduce in un riconoscimento dell’importanza dei costumi (o della cultura) nell’organizzazione della vita e della società umana. Alla base del r. vi è una profonda diffidenza nei confronti dell’universalità di strutture psichiche o mentali, di ordine naturale, che accomunerebbero tutti gli uomini. Il r. non nega che esistano strutture di tal genere; ritiene tuttavia che esse rappresentino una componente per così dire minoritaria nell’organizzazione umana: più importante appare invece la dimensione culturale, con la sua inevitabile variabilità, per cui ciò che contraddistingue l’uomo nella sua vera essenza sarebbe proprio questa variabilità, anziché l’uniformità di leggi o strutture naturali.
Le maniere mediante cui si decide di addentrarsi negli universi culturali possono essere assai diverse e rispondere a criteri metodologici persino opposti; ma in generale il r. tenderebbe a fare propria la posizione di un antropologo come B. Malinowski, allorché affermava, a proposito dell’indigeno delle isole Trobriand, che occorre cogliere «la sua visione del suo mondo». L’acquisizione di una visione dall’interno – comunque questa venga poi perseguita – rappresenta il punto maggiormente produttivo del r., quello per il quale esso non si riduce soltanto a un atteggiamento di rilevazione della molteplicità e di rispetto della diversità culturale, ma si traduce in uno sforzo conoscitivo portato fino nell’intimo dell’alterità.

5. R. linguisticoLa propensione a valorizzare una visione dall’interno, elaborata mediante principi e categorie particolari e irripetibili, specifici di una società determinata, salda il relativismo culturale con il r. linguistico . Da Boas a E. Sapir, da questi a B.L. Whorf, riemerge nella cultura antropologica e linguistica del 20° sec. una tradizione di pensiero che risale a Herder e soprattutto a W. von Humboldt. Per Humboldt il linguaggio da un lato è «l’organo formativo del pensiero» e nel contempo dell’umanità, dall’altro non può che tradursi in una serie indefinita di lingue particolari, ciascuna delle quali esprime «non una diversità di suoni e di segni, ma una diversità di visioni del mondo». In simili formulazioni è possibile rintracciare una combinazione tra due principi: quello della relatività linguistica, esprimibile nella formula «Non esiste limite alla diversità strutturale delle lingue», e quello del determinismo linguistico («Il linguaggio determina il pensiero»). È il secondo principio che riesce a trasformare il r. da una semplice constatazione di diversità strutturali e di molteplicità irriducibili in un atteggiamento di ricerca globale.

6. Il dibattito sul relativismoIn ogni epoca il dibattito sul r. è stato sempre un argomento piuttosto acceso e animato, opponendo due schieramenti: quello dei relativisti , per i quali l’ammissione della molteplicità e il riconoscimento delle differenze comportano un’apertura verso le forme più diverse che l’umanità può assumere, non avvertendo in ciò un pericolo, ma semmai un arricchimento; quello degli antirelativisti , per i quali la tesi della molteplicità si configura invece come una minaccia portata verso lo stesso senso di unità degli uomini: se gli esseri umani fossero così culturalmente diversi e se la diversità culturale fosse tale da incidere così profondamente negli esseri umani, non sarebbe forse messa in discussione la stessa possibilità di intesa e dialogo tra individui, gruppi, società? I.C. Jarvie, filosofo formatosi sotto la guida di K. Popper, ha affermato che alle spalle del r. è possibile intravedere il nichilismo. Si può comprendere bene come a C. Geertz, uno dei più convinti sostenitori del r., questa presa di posizione appaia come l’evocazione del tutto infondata di uno ‘spettro’, di una ‘paura’ ingiustificata. E tuttavia è innegabile che il r. possa assumere aspetti inquietanti, a dimostrazione di come questo movimento di pensiero non presenti un unico volto, ma possa piegarsi a molteplici usi e interpretazioni.

relativismo Ogni dottrina o concezione filosofica fondata sul riconoscimento del valore soltanto relativo, e non oggettivo o assoluto, sia della conoscenza, dei suoi metodi e criteri (r. gnoseologico), sia dei principi e dei giudizi etici (r. etico), variando tutti da individuo a individuo, da cultura a cultura, da epoca a epoca. Come orientamento filosofico, il r. può essere fatto risalire a Protagora, che con la famosa formula dell’«uomo misura di tutte le cose» sottolineò il ruolo ineliminabile dell’opinione nella conoscenza umana, negando la possibilità di conseguire una conoscenza oggettiva e immutabile. Sia in Protagora sia nella sofistica il r. investe non soltanto l’ambito della conoscenza, ma anche quello dell’etica, dove si caratterizza per la negazione dell’esistenza di giudizi e principi morali validi in assoluto: il giusto e l’ingiusto, il bene e il male dipendono, in questa prospettiva, da ciò che le varie comunità considerano tale, ed è soggetto a mutamento a seconda dei tempi e dei luoghi. Benché non esista, a rigore, una tradizione relativistica, il r. e gli atteggiamenti relativistici attraversano pressoché tutta la storia della filosofia, e la loro caratteristica è la messa in discussione dei sistemi di pensiero volti all’individuazione di principi assoluti e immutabili a fondamento dei giudizi conoscitivi ed etici. Si comprende pertanto come il pensiero classico abbia cercato di restaurare, contro le varie forme di r., la dimensione della verità assoluta, perseguibile e conseguibile attraverso la purificazione dei procedimenti conoscitivi dagli elementi soggettivistici connessi alla sensibilità e all’opinione.
Il relativismo nel pensiero moderno. Il r. si ripropone nel pensiero moderno, soprattutto in connessione con lo scetticismo, come nel caso di Montaigne, che, sotto le suggestioni dei radicali mutamenti intervenuti nel sapere scientifico e delle recenti scoperte geografiche, metteva in evidenza, da un lato, la sostanziale precarietà e relatività storica di quelle che erano un tempo concepite come verità assolute (precarietà che nulla impediva quindi di attribuire anche alle nuove conoscenze), dall’altro lato, la mancanza di reale oggettività dei giudizi sulle culture ‘barbare’ del Nuovo mondo, fondati su un’illegittima assolutizzazione dei canoni di valutazione vigenti nella cultura europea. Pur tuttavia questa forma di r. si arrestava di fronte alla fede, senza spingersi a mettere in discussione l’autorità della religione cattolica (è il caso del seguace di Montaigne, Charron).
Lo storicismo. Un r. conseguente e sistematico non si svilupperà che a partire dalla fine dell’Ottocento, entro la corrente di pensiero nota come storicismo (➔). La relativizzazione storica di ogni manifestazione culturale e la molteplicità delle visioni del mondo (Weltanschauungen) rappresentano gli esiti più significativi dello storicismo di Dilthey, che con esse intendeva distruggere la fede nella validità universale e assoluta di qualsiasi singola forma di vita, sistema di valori, religione e filosofia, restituendoli a quella dimensione storica, parziale e determinata, entro cui sorgono e si esauriscono. Tali esiti sarebbero poi stati radicalizzati da Spengler entro una prospettiva metafisica per molti versi estranea a quella diltheyana: ogni cultura è per Spengler un organismo vivente, in quanto tale sottoposto a un ciclo vitale che va dalla nascita alla maturità alla decadenza; incomunicabili nei loro universi simbolici, tali organismi storico-culturali vivono ciascuno la durata della loro vita con i loro irriducibili sistemi di valori. Nella prospettiva del r. storicistico rientra in qualche misura lo stesso Weber, che, pur teorizzando l’oggettività della conoscenza storica attraverso la delineazione di criteri epistemologici di derivazione positivistica, riconosceva tuttavia l’inevitabile relatività, o «politeismo», dei valori.
La riflessione novecentesca. Dopo l’esaurirsi dell’esperienza storicistica, il r. ha interessato altri settori culturali del Novecento, come la sociologia, la filosofia analitica e la filosofia della scienza. Nella sociologia della conoscenza di Mannheim il r. si presenta nella forma del condizionamento storico e sociale dello stesso discorso conoscitivo, sicché non si darebbero conoscenze vere in assoluto, ma soltanto in relazione ai contesti storico-sociali e culturali. Relativistiche possono essere considerate anche le riflessioni del secondo Wittgenstein sulla dipendenza dalle convenzioni, dalle pratiche sociali e dalle «forme di vita» dei vari «giochi linguistici» che presiedono alla comunicazione, alle relazioni interindividuali nonché alle procedure conoscitive e ai criteri di razionalità. In parte influenzate da Wittgenstein, ma non del tutto estranee alla sociologia della conoscenza e allo storicismo, sono poi le tesi sostenute da Kuhn, che, relativizzando la conoscenza scientifica ai contesti culturali e storicamente mutevoli dominati dai «paradigmi» (➔ paradigma), è pervenuto a un’immagine della storia della scienza in cui ogni epoca ha propri presupposti metafisici, propri criteri conoscitivi, proprie procedure di verifica e proprie verità. Le tesi di Kuhn sono apparse a molti eccessive in quanto ritenute distruttive dell’idea stessa di razionalità scientifica. Un vivace dibattito ha caratterizzato la filosofia della scienza e del linguaggio nella seconda metà del 20° sec., e il r. dei «paradigmi», dei «quadri concettuali» e delle «forme di vita» è stato contestato da Popper, Quine (che pure ne è considerato un ispiratore), D.H. Davidson e Putnam, i quali hanno sottolineato in vario modo il suo carattere autoconfutante, che, mentre asserisce la relatività di ogni conoscenza, presupposto e valore, assume tuttavia l’oggettività e la validità incondizionata del suo punto di vista. Il r. ha interessato anche la linguistica e l’antropologia del Novecento. In ambito linguistico (e più propriamente etno-linguistico), va segnalata la cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf (dai nomi di Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf), secondo la quale la struttura grammaticale di una lingua condizionerebbe il sistema cognitivo dei parlanti, sicché a lingue radicalmente diverse corrisponderebbero diverse concezioni del mondo. Nel più ampio settore antropologico si parla di r. culturale a proposito degli orientamenti di R. Benedict e M.J. Herskovits, entrambi allievi di F. Boas. In opposizione agli orientamenti antropologici, interessati alle analisi comparative delle varie culture al fine di individuare l’esistenza di principi comuni a tutte le società, il r. antropologico ha elaborato una prospettiva di studio che fa dell’analisi delle singole culture, storicamente e spazialmente determinate, il perno della ricerca antropologica. Da questo punto di vista ogni cultura va compresa come sistema olistico: i comportamenti, i valori e le credenze delle varie comunità vanno interpretati come parti di un autonomo sistema che conferisce loro significato. Di qui l’esigenza teorica, e insieme etica, di un atteggiamento intellettuale che eviti categorie estranee ai sistemi culturali studiati e giudizi di tipo etnocentrico.

http://www.treccani.it/enciclopedia/relativismo/