giovedì 28 marzo 2013

Dottrina del Vuoto



śūnyavāda
Scuola e dottrina buddhistica assertrice del «vuoto» (sanscr. śūnya), cioè della non esistenza assoluta; il suo più illustre esponente fu Nāgārjuna (2° sec. a.C.). È chiamata anche śūnyatā, e i suoi seguaci sono detti śūnyavādin. La dottrina ś. sostiene la vacuità del mondo fenomenico, così come di ogni concetto, compreso quello stesso del vuoto, che altro non è se non una designazione metaforica. Niente esiste realmente di per sé, ma solo in maniera relativa; concetti e definizioni hanno valore puramente strumentale, in quanto unici punti di appoggio su cui fondare la ricerca della verità.
cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/sunyavada/

La dottrina del vuoto (sunyata) è il tema di un’opera letteraria chiamata Prajna-paramita, o “Sapienza per passare all’altra sponda”, un’opera strettamente associata alla dottrina di Nagarjuna (circa 200 d.C.). Questa è la “dottrina del vuoto assoluto” Sunyavada (da sunya o sunyata = vuoto) di Nagarjuna, nota come il Madhyamika, la “ Via di mezzo, “ che dimostra la vanità delle cose di questo mondo conosciuta come nichilismo o “Relativismo assoluto”. E’ difficile capire come un punto di vista cosi totalmente negativo possa avere una conseguenza costruttiva. Nagarjuna non era così sciocco da negare effettivamente la realtà spirituale, ma rispondeva alle necessità psicologiche della sua epoca. La dialettica con la quale egli demolisce ogni concezione della realtà materiale, è solo uno stratagemma per rompere il circolo vizioso dell’attaccamento e il fine supremo della sua filosofia non è l’abietta disperazione del nichilismo ma la naturale e spontanea beatitudine (brahmananda) della liberazione. Il Sunyavada con la filosofia della negazione totale, cercava di promuovere il processo della visione interiore. Così, l’opera di Nagarjuna fu una confutazione sistematica d’ogni dottrina filosofica del suo tempo. È bene perciò ripetere che le negazioni si applicano non alla realtà stessa, ma alla nostra falsa idea della realtà.
Il contenuto positivo e creativo del Sunyavada non si trova nella filosofia stessa, ma nella nuova visione da essa evocata, e Nagariuna non rovina questa visione cercando di descriverla. Sunyata, come nirvana, è un concetto elusivo, anche se i filosofi Buddhisti successivi si sono sforzati di darne una definizione. Si diceva che al momento della morte una persona perfettamente illuminata raggiungesse il parinirvana, la realizzazione ultima, descritta come una forma di “assenza di morte”.
Questo supremo livello di perfezione Buddhista non si poteva descrivere adeguatamente perché trascende tempo, spazio, nascita, morte, e tutti gli aspetti convenzionali dell’esistenza mondana. La maggior parte dei testi Buddhisti descrivono il parinirvana semplicemente come uno stato al di là di qualsiasi livello noto di percezione sensoriale, lo stadio in cui si dice che l’individuo ha raggiunto il sunyata. Il Mahayana ha, comunque, un altro termine per definire la realtà, che è forse anche più indicativo di sunya, il vuoto. È la parola “qui e ora”, Tathata (dal sanscrito tat “quello”), si rivolge all’esperienza concreta distinguendola dall’astratto concettuale. Un Buddha è un Tathagata, o “colui che ha camminato cosi”, perché s’è risvegliato a questo mondo originale, esperienza che nessuna parola può comunicare. Poiché tathata è il vero stato del Signore Buddha e di tutti gli esseri in genere, si riferisce anche alla loro natura ontologica, la “natura di Buddha”.
Una delle dottrine basilari del Mahayana afferma che tutti gli esseri sono dotati della “natura di Buddha” (prajna) e quindi hanno la possibilità di diventare dei Buddha (degli illuminati), uguali a lui in qualità ma differenti in quantità. Simultaneamente uno e differenti da Buddha. Il termine “Buddha”, è usato per indicare la realtà spirituale stessa e non soltanto l’uomo risvegliato. Nel Mahayana perciò Buddha è considerato la personificazione della realtà spirituale, incarnazione dello Spirito Supremo, ed è oggetto di adorazione.

Hui Neng
Un giorno, il Quinto Patriarca disse ai suoi monaci di esprimere la loro saggezza in una poesia. Colui che avrebbe dimostrato la vera realizzazione della sua natura originale (Natura di Buddha) sarebbe stato ordinato Sesto Patriarca. Il monaco anziano, Shen Hsiu, era il più colto e scrisse i seguenti versi:

"Il corpo è l'albero della Bodhi,
la mente è come uno specchio chiaro;
Continuamente sforzati di lucidarlo,
Per non lasciare che vi si raccolga la polvere."

La poesia fu elogiata, ma il Quinto Patriarca sapeva che Shen Hsiu non aveva ancora trovato la sua natura originaria, d'altro canto, Hui Neng era analfabeta, così qualcuno scrisse per lui, sotto dettatura, la sua poesia, che diceva:

"Fondamentalmente la Bodhi non ha albero,
né esiste sostegno di alcuno specchio.
Poichè tutto è vuoto fin dall'origine,
Dove può mai posarsi la polvere?"

Il Quinto Patriarca fece finta di non essere impressionato da questa poesia, ma nel cuore della notte convocò Hui Neng. Il Quinto Patriarca gli diede le insegne del suo ministero, il manto e la ciotola del Patriarca. A Hui Neng fu detto di partire per il sud e di nascondere la sua illuminazione e la sua comprensione fino a che tempi più propizi fossero giunti per propagare il Dharma.

da http://blog.libero.it/FormaPlenaria/7449479.html


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