giovedì 28 febbraio 2013

Anima




L'anima (dal latino anima, connesso col greco ànemos, «soffio», «vento»), in molte religioni, tradizioni spirituali e filosofie, è la parte spirituale ed eterna di un essere vivente, comunemente ritenuta indipendente dal corpo, poiché distinta dalla parte fisica. Tipicamente si pensa che consista della coscienza e della personalità di un essere umano, e può essere sinonimo di «spirito», «mente» o «io».
Si crede che l'anima continui a vivere dopo la morte fisica della persona, e alcune religioni postulano che sia Dio a creare o generare le anime. In alcune culture, si dice che gli esseri viventi non umani e, talvolta, altri oggetti (come i fiumi) abbiano un'anima, una credenza nota come animismo.
I termini «anima» e «spirito» vengono spesso usati come sinonimi, anche se il primo è maggiormente legato al concetto di individualità di una persona.
Anche le parole «anima» e «psiche» possono essere considerate come sinonimi, sebbene «psiche» abbia connotazioni relativamente più fisiche, mentre l'anima è collegata più strettamente alla metafisica e alla religione. Nella Grecia antica si faceva a volte riferimento all'anima con il termine psyche, da collegare con psychein, «respirare», «soffiare».
Nell'Induismo in generale si fa riferimento all'Ātman.
Una differenza di estensione concettuale esiste poi tra i termini italiani "anima" e "animo" dalla stessa origine etimologica ma che viene usato con significati più limitati rispetto ad anima. Animo infatti viene riferito a mente (attenzione, inclinazione), pensiero, memoria, luogo degli affetti e dei sentimenti, come origine della volontà (proposito), disposizione di spirito, coraggio.
Il concetto di anima compare la prima volta con Socrate, il quale ne fece il centro degli interessi della filosofia. Prima di lui, i filosofi erano soliti occuparsi di questioni attinenti al mondo o la natura, e la nozione di anima possedeva connotati esclusivamente mitologici, ad esempio negli autori epici come Omero e Virgilio, dove era assimilata ad un "soffio" che abbandona il corpo nel momento della morte; allora si riteneva che essa avesse soltanto la consistenza di un'ombra, capace di sopravvivere nell'Ade ma senza più poter esplicare la sua energia vivificatrice.
È solo con Socrate, e col suo discepolo Platone, che sarà utilizzato il termine psyché (anima) per designare il mondo interiore dell'uomo, a cui viene ora assegnata piena dignità.
Secondo Platone, l'anima è per sua natura simbolo di purezza e spiritualità. Ha la sua origine nel soffio divino (da cui il significato stesso della parola, ossia: vento, soffio). Essa non ha un inizio, in quanto è ingenerata; ed è immortale e incorporea. L'anima presente in ogni uomo sarebbe inoltre un frammento dell'anima del mondo. Secondo la contrapposizione gnostica tra Dio (pura perfezione, bene) e materia (imperfezione, male), ripresa dallo stesso Platone, l'anima sarebbe stata calata da Dio in un corpo materiale e perciò contaminata dall'intrinseca malvagità della materia stessa.
Nel tentativo di superare il dualismo platonico, Aristotele intende l'anima come entelechia: essa non è distinta dal corpo, ma coincide con la sua forma. L'anima per lui rappresenta la capacità di realizzare le potenzialità vitali del corpo, e dunque non è da questo separabile; per conseguenza, sarebbe mortale, anche se si tratta di una conclusione su cui egli non dà un giudizio definitivo. Un principio di eternità riposa in effetti nell'anima intellettiva, che però opera senza il supporto di un organo corporeo. Aristotele non chiarisce i rapporti tra quest'anima e le altre, né se l'eternità dell'anima intellettiva sia anche individuale; del problema discuterà la filosofia medievale.
Per Plotino l'Anima è la terza ipostasi, la cui essenza è immortale, intellettiva e divina. Vi è un'anima universale, emanazione della sovra-realtà dell'Intelletto, che plasma e vitalizza l'intero universo (diventando Anima del mondo), e anime individuali, per tutti gli esseri viventi. Seguendo il Timeo di Platone, Plotino attribuisce anime anche agli astri e ai pianeti. La singolarità del pensiero di questo filosofo riguardo l'anima sta nel suo averla sdoppiata in "Anima superiore", originaria e legata al divino, e "Anima inferiore" (appunto Anima del mondo), preposta al governo del cosmo o, nel caso degli individui, al governo del corpo.
L'anima originaria per il filosofo non è mai oggetto di "caduta" e non discende mai nel mondo materiale. La discesa nel corpo consiste infatti in una propensione ("inclinazione") verso il sensibile e il particolare che si realizza in una sorta di emanazione. L'anima originale (a. superiore) produce così una specie di riflesso, una seconda parte dell'anima (a. inferiore) la cui funzione consiste nel muovere e guidare il corpo. Ciò avviene sia a livello individuale (ogni essere vivente possiede infatti un'anima superiore rivolta all'Intelletto e in perenne contemplazione, e un'anima inferiore, visibile come governo dell'anima e identificata con l'Io terreno) che a livello universale (l'Anima ipostasi, che procede dall'intelletto, emana da sé l'anima del mondo - l'anima inferiore dell'universo - che plasma e muove armoniosamente il tutto). Per quanto riguarda l'etica, Plotino ritiene che l'anima superiore sia esente dal peccato e dalla corruzione questo perché i comportamenti e gli atteggiamenti scorretti sono esclusivamente da riferire all'anima inferire e al suo commercio con la materia. Il percorso dell'anima e la sua conversione è un processo dell'anima inferiore, che può elevarsi verso le prime realtà attraverso l'unione e il riassorbimento con l'anima superiore. Le due anime possiedono ciascuna funzioni cognitive proprie: entrambe sono dotate di capacità di pensiero, anche se si tratta di modalità di pensiero differenti e di immaginazione. Per Plotino - come per Platone e Aristotele - l'immaginazione è funzione della memoria, quindi il suo sdoppiamento dà luogo a due tipi diversi di ricordi (per l'anima inferiore si tratta ricordi di oggetti sensibili e di esperienze terrene, mentre per l'anima superiore si tratta di reminiscenza). La comunicazione tra le due anime avviene continuamente in maniera spontanea proprio attraverso il continuo confronto dei ricordi sensibili provenienti dal basso con gli archetipi contemplati dalla parte superiore. Le passioni sono invece tipiche dell'anima inferiore, anche se in alcuni passi si parla di passione in riferimento all'anima superiore, si tratta di un desiderio ancestrale che la tiene unita all'Intelletto.
I latini, come è noto, non furono grandi speculatori di pensiero astratto, e utilizzarono serenamente per le proprie speculazioni filosofiche strutture provenienti da altre culture. Tanto che il grande filosofo-poeta epicureo Lucrezio, all'inizio del suo De rerum natura, afferma di non sapere in cosa consista la natura dell'anima, limitandosi ad accennare alle teorie correnti, compresa quella della reincarnazione, senza mostrare alcun interesse a privilegiarne una.
Concetto di origine orientale denominato Atman e, probabilmente attraverso gli orfici o i pitagorici, arrivato a Platone che nel Timeo (34 b) la chiama megàle psyché ("grande anima"). Richiamandosi alla tradizione dell'ilozoismo arcaico, per il quale il mondo è una sorta di grande animale, Platone lo vede supportato dall'Anima del Mondo, infusagli dal Demiurgo, che impregna il cosmo e gli dà vitalità generale.
Alcuni autori cristiani lo identificarono con lo Spirito Santo, anche se il termine risultò piuttosto sospetto a qualche teologo cristiano in quanto evocava princìpi panteistici come il Logos degli stoici o la terza ipostasi di Plotino, chiamata appunto anima.
Attraverso il neoplatonismo di Plotino e dei suoi epigoni il concetto, con varie denominazioni, arriva alla cultura rinascimentale e ha un importante rilancio a cominciare da Marsilio Ficino, seguito più tardi da Giordano Bruno. È una nozione particolarmente cara al pensiero magico e mistico, che viene elaborata in occidente non oltre il periodo romantico (Schelling), e tende a riemergere in fasi culturali di crisi del razionalismo materialista.

cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Anima

mercoledì 27 febbraio 2013

cfr. http://www.riflessioni.it/enciclopedia/spirito.htm


lunedì 25 febbraio 2013

Illuminazione - seconda parte


Samādhi (devanāgarī: समाधि, lett. "mettere insieme", "unire con") è un sostantivo maschile sanscrito proprio delle culture religiose buddhista e induista che descrive l'unione del meditante con l'oggetto della meditazione.
Il termine sanscrito samādhi deriva da saṃ ("insieme") rafforzato dalla particella ā + la radice verbale dha ("mettere").
La prima citazione del termine samādhi la si rileva nel Canone buddhista di poco posteriore è la sua menzione nella letteratura non buddhista successiva alle Upaniṣad, la Bhagavadgītā.
È nella letteratura buddhista che si riscontra per la prima volta il termine samādhi:
« Monaci, questi sono i quattro stadi della concentrazione (samādhi). Quali quattro? C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce al piacere in questa vita. C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce al conseguimento della conoscenza e della visione profonda. C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce alla consapevolezza e alla presenza mentale. C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce alla fine degli influssi impuri »
(Samādhisutta, Aṅguttaranikāya 4.41)

Buddhaghosa lo indica come "concentrazione in un solo punto" (cittekaggatā, in Aṭṭhasālinī 302, ed. Pali Text Society p. 118). La Dhammasaṅgaṇī (15, ed. Pali Text Society p. 11), vale a dire il testo Abhidhamma di cui l'Aṭṭhasālinī di Buddhaghosa è il commentario, definisce la facoltà del samādhi come "stabilità della mente" (cittassa ṭhiti), "risolutezza" (avaṭṭhiti), "equilibrio" (o "non-distrazione: avisāhāra), assenza di disturbo (avikkhepa), calma (samatha), "condizione della mente imperturbata" (avisāhaṭamānasatā).
Georg Fuerenstein evidenzia come con ciò non si intenda la "concentrazione della mente ordinaria" quanto piuttosto la capacità yogica di astrarsi dall'esterno focalizzandosi sulla propria realtà interiore.
Alle stesso conclusioni definitorie, in ambito buddhista, giunge Philippe Cornu:
« Quando essa rimane focalizzata su un unico punto o su un solo oggetto e le nozioni di "soggetto" e "oggetto" scompaiono, non si può più parlare realmente di "concentrazione della mente sull'oggetto" giacché resta solo l'esperienza meditativa in sé. »

Il samādhi corrisponde all'ultimo stadio dell'Ottuplice sentiero e quindi riassume tutte le pratiche meditative dei dhyāna oltre le quali si colloca l'obiettivo finale, il nirvāṇa.
Nel Buddhismo il samādhi è frutto dell'unione della tecnica meditativa del śamatha ("dimorare nella calma", ovvero calmare la mente) con l'altra tecnica meditativa denominata vipaśyanā ("visione profonda") queste due pratiche vanno eseguite unitamente anche se una può procedere dall'altra:
« Per accedere al samādhi, dunque, śamatha o vipaśyanā presi singolarmente non sono sufficienti »

Il termine samādhi compare anche nella Bhagavadgītā, opera successiva al Canone buddhista.
Mircea Eliade evidenzia che se il samādhi è considerato una esperienza "indescrivibile" esso non è comunque univalente e viene indicato come
« lo stato contemplativo in cui il pensiero afferra immediatamente la forma dell'oggetto senza l'aiuto delle categorie e dell'immaginazione (kalpaṇā); stato in cui l'oggetto di rivela "in sé stesso" (svarūpa). in ciò che ha di essenziale e come se "fosse vuoto di sé stesso" (arthamātranirbhāsaṃ svarūpaçūnyamiva in Yogasūtra, III,3 »

domenica 24 febbraio 2013

La Domenica


La domenica è il giorno della settimana civile tra il sabato e il lunedì.
In Europa e in America latina è considerato l'ultimo giorno della settimana, negli Stati Uniti, in Giappone, in Brasile e in Portogallo invece è considerato il primo.
Prima dell'avvento del Cristianesimo, questo giorno corrispondeva al dies solis, cioè il "giorno del Sole" in onore della divinità del Sol Invictus. Ancora oggi questa denominazione si è conservata nelle lingue germaniche come nella lingua inglese Sunday, o nella lingua tedesca Sonntag.
Il riposo domenicale non ha un'origine pagana ma cristiana. Il 7 marzo 321 l'imperatore Costantino (che allora era un adepto del Sol Invictus ma si battezzò in punto di morte divenendo alla fine cristiano) stabilì che il primo giorno della settimana (il giorno del Sole, dies Solis) doveva essere dedicato al riposo perché la chiesa prima di lui sin dal tempo degli apostoli osservava la domenica.
La religione del Sol Invictus restò in auge fino al celebre editto di Tessalonica di Teodosio I del 27 febbraio 380, in cui l'imperatore stabilì che l'unica religione di stato era il Cristianesimo, bandendo e perseguitando ogni altro culto.
Per tale ragione, il 3 novembre 383 il dies Solis venne rinominato dies dominicus (Giorno del Signore) e in tale forma è giunto fino a noi.
I cristiani hanno basato l'osservanza della domenica sulla resurrezione di Cristo dopo che i rituali della legge di Mosè vennero aboliti e con essi il riposo sabbatico.
I primi cristiani sin dalle origini, subito dopo la resurrezione di Cristo, hanno celebrato il giorno di domenica abbandonando il sabato in quanto rituale abolito nella nuova alleanza. Il sabato infatti è un rituale abolito nella nuova alleanza e la domenica è una iniziativa cristiana creata nella libertà del vangelo il cui culto è indipendente dalla legge di Mosè. La domenica non è quindi una continuazione o la sostituzione del sabato nella nuova alleanza, ma una iniziativa cristiana che parte da zero, dalla risurrezione di Cristo, indipendente e svincolata dalla legge di Mosè. Il Sabato è inserito nel Decalogo (Esodo 20), legge che non rispecchia esclusivamente il carattere eterno del suo autore, cioè Dio, ma è solo un simbolo della legge che Dio diede a Mosè. La legge eterna di Dio è sparsa per tutta la scrittura e i comandamenti morali più importanti non sono compresi nel decalogo: "ama Dio con tutto il tuo cuore la tua mente e la tua anima e ama il prossimo come te stesso" comandamenti definiti da Gesù Cristo la massima espressione di legge morale sono inseriti nella legge di Mosè ma non dentro il decalogo e non erano dentro l'arca dell'alleanza.
Dentro l'arca non c'erano solo ed esclusivamente i comandamenti morali eterni ma leggi che simboleggiavano l'alleanza tra Dio e gli ebrei. Quando Gesù indica i comandamenti morali più importanti ne cita due che non sono nel decalogo e non erano nell'arca dell'alleanza.
Gesù insegna il rispetto dell'uomo, in quanto la vita viene prima di ogni cosa, ma allo stesso tempo fa capire che il sabato è solo un cerimoniale della legge mosaica di secondaria importanza. Il giorno di riposo giudaico, il Sabato, è stato fatto per dedicarsi a Dio e agli altri solo all'interno della legge che Dio diede agli ebrei. Dio nel giardino dell'Eden non aveva bisogno di un giorno di riposo per gli uomini perché il periodo nel paradiso era un riposo quotidiano a partire dal settimo giorno della creazione in quanto non esisteva il lavoro faticoso maledetto da Dio (Genesi 3,17/18) e vi era sempre comunione con Dio senza bisogno di un riposo ciclico.
Il riposo del sabato è stato dato ai guidei solamente nella legge di Mosè come conseguenza del peccato e della maledizione di Dio sul lavoro che richiedeva riposo dopo l'angoscia di lavorare duramente data come maledizione all'uomo dopo il peccato di Adamo. Nel paradiso dell'Eden non esisteva il riposo sabbatico prima del peccato di Adamo perché la creatura entrava in comunione con Dio quotidianamente, in un sabato quotidiano a partire dal primo sabato alla creazione senza bisogno del rituale giudaico di riposare ciclicamente ogni sette giorni.
In tutto il NT si capisce che il rituale del riposo del sabato è abolito, il Concilio di Gerusalemme (Atti 15) il primo grande concilio cristiano, rende inutili le prescrizioni rituali e cerimoniali della legge mosaica per i cristiani, abolendo la circoncisione la quale legava all’osservanza di tutti i rituali dati da Dio agli ebrei.
Bisogna inoltre fare una netta distinzione tra legge scritta da Mosè (Deut. 31: 24-26) e Legge morale divina: l'una mutevole, l'altra eterna. Le grandi leggi morali non sono comprese esclusivamente nei dieci comandamenti: "ama il prossimo tuo come te stesso" e "ama Dio con tutto il cuore" sono l'apice della legge morale e non sono nel decalogo. I dieci comandamenti non rappresentano esclusivamente la legge morale di Dio che è invece sparsa per tutta la sacra scrittura. Il Sabato è un rituale che rientra nel decalogo e verrà abolito nella nuova alleanza insieme agli altri rituali della legge che Dio diede agli ebrei. L'insieme dei dieci comandamenti come gruppo di leggi è abolito nel nuovo testamento ( solo i comandamenti erano incisi sulla pietra e sono ormai un insieme superato secondo l'apostolo Paolo in Corinzi 3,4/11) e le singole leggi del decalogo adesso devono ora essere prese in considerazione una ad una indipendentemente per verificare se sono valide nella nuova alleanza nel sangue di Cristo. Il sabato, che si basa sul non lavorare ogni settima rotazione della circonferenza terrestre attorno al sole, è un comando fisico e rituale che non ha nulla di etico o morale, la sua prescrizione è ritualistica come il comandamento di indossare le frange o circoncidersi.
Il sabato non è un comando universale perché può essere osservato solo sul pianeta terra nella zona della Palestina. Il sabato non esiste oggettivamente ma è un periodo di tempo deciso arbitrariamente dagli uomini avendo stabilito soggettivamente una linea di inizio giorni sulla circonferenza terrestre per cui ad est e ad ovest della Palestina l'identità di questo giorno è puro arbitrio dell'uomo rendendo cosi' ogni giorno uguale all'altro dal punto di vista di Dio.
Il passaggio dal Sabato alla domenica è avvenuto in quanto il rituale sabbatico è stato abolito e la domenica NON è la continuazione o la sostituzione del riposo del sabato nella nuova alleanza ma una nuova iniziativa cristiana nella libertà di culto della nuova alleanza, un culto che parte da zero e non è più legato alla legge di Mosè.

cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Domenica 

sabato 23 febbraio 2013

Come meditare - quinta parte


Il Buddha disse che quando il monaco siede, è consapevole di essere seduto, solo seduto.
E' veramente seduto.
Nella sua testa non viene prodotto nessun pensiero, salvo la constatazione di essere seduto.
E' la meditazione di consapevolezza.
La prima che viene insegnata ma secondo me è l'essenziale.
Iniziare a praticarla non è facile. Ci vuole del tempo prima di raggiungere la vera concentrazione, prima di riuscire a fermare la mente. Prima di riuscire ad utilizzarla per quello che è.
Perché il problema è proprio la mente.
La mente è una scimmia che salta da un ramo all'altro.
E' talmente prepotente e potente da convincerci che sia lei ad essere la nostra vera natura. Che noi siamo mente.
Perché proprio non è così.
La mente è una nostra grande possibilità. Un nostro strumento, come le braccia, i genitali o lo sfintere anale. Ce ne possiamo servire per vivere o per rendere più piacevole la vita ma non sono noi.
La mente è la stessa cosa.
Anzi, peggio: la mente è il prodotto di un nostro organo, non è un organo del nostro corpo.
La mente è il prodotto dell'attività del nostro cervello.
Allo stesso modo in cui la cacca è il prodotto del nostro intestino.
Utile ma non siamo noi.
Dopo aver fermato la mente, a volte dopo molto tempo, ci si acdcorge invariabilmente che c'é qualcos'altro oltre il rumore dei pensieri.
Intanto che chi ha fermato la mente non è la mente.
Che chi prende i pensieri, li analizza e li mette da parte non è mente.
Che chi osserva la mente non è la mente.
Prima o poi, nella meditazione più profonda, o a volte, per brevi sprazzi, anche nei primissi tempi, ci si accorge che possiamo utilizzare coscientemente la mente come possiamo farlo con i nostri polmoni o qualsiasi altro dei nostri organi.
Alcuni maestri di yoga, ci riescono anche con il cuore: lo rallentano o lo accellerano a piacimento. Qualcuno riesce persino a fermarlo per brevissimi periodi.
Quando sarai riuscito a controllare la mente svilupperai consapevolezza.
Apprezzerai la realtà.
Le cose come sono.
Tu come sei.
Niente cambierà ma tutto sarà diverso.
E' un viaggio circolare dove tutto finisce dove era iniziato.
Il pesciolino cercava l'oceano e percorse miglia verso ovest per trovarlo. Chiese alla fine ad una tartaruga e quella rispose che c'era dentro, c'era nato e ci stava nuotando proprio ora. Lui se ne andò borbottando: "Che stupida! Questa è solo acqua, acqua e acqua!!"

venerdì 22 febbraio 2013

Come meditare - quarta parte



Tutto qui?

Beh, in linea di massima si.
Secondo alcune scuole la pratica coincide con la realizzazione. Se mediti sei. Se siedi come un buddha sei un buddha.
Tutto però dipende dal perché lo fai.
E se lo fai per raggiungere qualcosa, immancabilmente quel qualcosa ti sfuggirà tra le dita e sembrerà ogni volta più lontano. Finché smetterai di cercare, praticherai solamente ed ecco, per magia, che ti ci ritroverai dentro fin sopra i capelli.
Meditare è tornare ad essere ciò che sei.
Riscoprire il vero sé.
Quindi è un ritorno, non un viaggio.
Una riscoperta non un invenzione.
Ce l'hai dentro.
Non devi fare qualcosa, devi smettere di fare quello che fai in più.
Non 'porre' ma 'levare'.
Dopo aver praticato sui pensieri, ti accorgerai che i pensieri nion smetteranno di emergere ma non avranno più il sopravvento, non ti identificherai più con loro. Non sarai più i tuoi pensieri. Scoprirai che puoi non pensare, che i tuoi pensieri non sono quello che chiami te stesso.
C'é qualcosa oltre la mente ed ora che sei riuscito a fare chiarezza, a calmare le acque, puoi vedere  agevolmente il fondo.
Tornerai a te stesso, ai tuoi veri occhi, alle tue vere orecchie.
Ora niente ti può disturbare perché non ti identifichi più in niente ed allo stesso tempo sai di essere tutto.
Non ti disturba la tua lingua in bocca finché non la vedi come altro da te ed allora ti identificherai con quel pensiero che produrrà fastidio e così via.
Se sei i tuoi pensieri, non sei tutto, sei limitato.
Se sei tutto, non sei i tuoi pensieri, sei assoluto, infinito.
In questo modo, siederai come sedeva il Buddha: consapevole di essere seduto.
E sarai anche consapevole della tua nuova consapevolezza.


giovedì 21 febbraio 2013

Come meditare - terza parte


Cosa fare.
Eccoci qua: arrivati al punto caldo.
Sono finite le premesse, è il momento di parlare chiaro.
Avete scelto il posto che vi pare più giusto, avete indossato l'abito più comodo che avete trovato, vi siete procurati eventuali cuscini e/o coperte. Vi siete infine seduti nel modo più comodo che vi è stato possibile trovare - ricordate solo di tenere la schiena dritta ed il mento rientrato in modo che la nuca sia allineata con la spina dorsale.
La prima cosa da fare è placare la mente.
Fermarla.
Calmarla.
Azzerate i pensieri ed i ricordi.
Il miglior modo per farlo è concentrarsi sul vuoto.
Dovete provare a creare il vuoto dentro di voi. Il vuoto è vostro amico, non vi può fare paura.
Anche perché tutto è vuoto. E se tutto è vuoto, cosa mai avete da pensare e da fare?
In questo primo momento, appena provate a spegnere la mente, i pensieri al contrario sovraffolleranno la vostra testa. I ricordi, trovato un momento di pace, risaliranno alla superficie, scatenando mille emozioni e nuovi pensieri. Il corpo stesso inizierà a sentire di tutto: troppo caldo, troppo freddo, dolore, sete, fame, e così via.
E' tutto normale.
E, soprattutto, è già meditazione: state meditando.
Non c'é nessun risultato eclatante da raggiungere: siete seduti, siete concentrati, perciò state meditando.
E' semplice e gratuito, non pensaate che sia chissà che cosa.
La meditazione la fate voi, non dovete imitare nessuno.
Anzi, presto avrete sicuramente anche qualcosa da aggiungere o togliere o contestare a queste righe.
Quindi mantenete la calma ed agite con ordine e consapevolezza.
Prendete ogni pensiero, ogni emozione, ogni ricordo che affiora, guardatelo bene come se non vi appartenesse ma guardatelo comunque bene e infine mettetelo da parte.
Lo prendete, lo guardate e lo mettete da parte.
Sono cose che riguardano il passato ed il futuro ma il vostro presente è stare seduti a gambe incrociate per il tempo che avete deciso. Nient'altro.
Quando i pensieri si saranno esauriti potete provare ad entrare ancora più a fondo.
I maestri consigliano di contare i respiri. Mentalmente.
Ogni inspirazione ed ogni espirazione.
Se perdete il conto, ricominciate da capo.
Se si presentano altri pensieri, di nuovo prendeteli, guardateli, metteteli da parte e continuate a contare.
State già meditando.
State facendo chiarezza.

mercoledì 20 febbraio 2013

Come meditare - seconda parte


Cosa significa.
Le parti precedenti non sono poi così essenziali.
Il problema viene adesso.
Cosa fare  quando si medita? Cosa 'é' meditare? Cosa non lo é?
La prima cosa da dire è che la stessa parola 'meditazione' ci può portare assai fuoristrada. In italiano proviene dal verbo meditare che significa 'considerare a lungo', 'preparare nella propria mente', 'macchinare', 'progettare', 'riflettere', 'concentrarsi su qualcosa' o semplicemente 'pensare'.
La parola 'dhyana', che vuole in qualche modo tradurre, indica qualcosa di diverso dal pensare o dal riflettere su qualcosa e questo per due motivi: primo, l'azione del 'dhyana' è intransitiva, non ha un oggetto; secondo, nella meditazione si cerca il più possibile di azzerare l'attività della mente.
Ecco, la meditazione non è un riflettere su qualcosa ma, caso mai, un riflettere fine a sé stesso. Al più può essere una riflessione sulla mente riflettente, una meta-attività.

Perché meditare, quindi?
La meditazione non è una pratica ginnica, pur facendo bene, a lungo andare, alle articolazioni.
Nemmeno una terapia, pur portando innumerevoli benefici al nostro corpo, inteso come organi e sistemi: rallenta i battiti del cuore, abbassa la pressione sanguigna, abbassa il livello di colesterolo nel sangue, guarisce da svariati disturbi psicologici, e così via.
Nemmeno una tecnica di rilassamento, pur abbassando il livello di ansia e portando ristoro al vostro sistema nervoso.
Che non è una pratica religiosa, l'ho già detto più di una volta: tutti possono meditare, tutti i fondatori di religione hanno meditato.
Ovviamente non è una forma di preghiera.
Allora perché perderci almeno dieci minuti al giorno?
La meditazione non è un mezzo ma è un fine. Meditare per meditare.
La meditazione è tornare allo stato neutro, alla nostra forma pura. Potete chiamarlo volto originario, natura primaria, assoluto, principio oppure Dio.
San Francesco diceva di stare zitti ed imparare dalle pietre.
Questo è meditare.
Meditare serve a togliere tutte le sovrastrutture che abbiamo e riscoprire la nostra pelle.
Di più: è decisamente consigliabile non accostarsi alla meditazione con l'obiettivo di raggiungere un obiettivo. No, non funziona così. Dicono che la meditazione debba portare al nirvana, alla satori, all'illuminazione, ma quando meditate, sparisce il satori, si dissolve l'illuminazione, scompare il nirvana e rimanete solo voi stessi, seduti, in silenzio.


martedì 19 febbraio 2013

Come meditare - prima parte



Dopo aver fatto questa panoramica sulla meditazione, su cosa è, su cosa soprattutto è stata, su come si può adattare a tutte le inflessioni e le sfumature, vorrei parlare di come si fa, in pratica.
Anche in questo caso, però, cercherò di scartare, pur citandole, tutte le inflessioni troppo dialettali, provando a costruire una pratica che possa essere neutra e accettabile da tutti.

Innanzitutto dove meditare.
Ovviamente l'ideale sarebbe un luogo deputato, fresco e asciutto, dove potersi ritirare senza essere disturbati; uscendo dalla fantascienza o dai monasteri, secondo me ogni luogo può andare bene, purché non sia estremo (troppa luce o troppo buio, troppo silenzio o troppa confusione, troppo caldo o troppo freddo, etc) e abbastanza solitario. Questo è l'essenziale: se amate i boschi, piuttosto che le montagne o gli scogli a picco sul mare, non esitate a sceglierli. Se amate l'incenso, accendetelo. Se non l'amate, fatene tranquillamente a meno. Molti utilizzano altari o immagini o statuette o quant'altro gli viene in mente: se vi piace fatelo, ma con la consapevolezza che non serve assolutamente alla vostra capacità di meditare. Al limite può servire a fare da motorino d'avviamento alla vostra concentrazione, solo questo. Se non avete a disposizione né un tempio, né uno dei luoghi descritti prima, accontentatevi di un angolo di casa vostra. All'inizio sarebbe meglio fosse sempre lo stesso: una volta cresciuti sarete in grado di meditare ovunque. Evitate di farlo in mezzo al soggiorno affollato di parenti e curatevi di avvertire che state meditando e che nei successivi 5/10/100(!) minuti non sarete disponibili salvo calamità naturali. Quindi nessun posto speciale, basta sia abbastanza solitario, fresco, asciutto e non troppo luminoso.

Poi, che posizione assumere.
La questione è fondamentale: seduti, sdraiati, in ginocchio, in piedi, a gambe più o meno incrociate, in equilibrio su di un arto a scelta?
In realtà non conta assolutamente niente, infatti ciascuna di queste possibilità sono attuate e attuabili da schiere di praticanti. Preferirne una piuttosto che l'altra dipende solamente dalla vostra capacità di contorcervi e di mantenere una certa posizione per un tempo sufficiente. Ovviamente l'altro limite è la tradizione ma su questo non ho niente da dire salvo che per tradizione si è fatto tutto ed il contrario di tutto, anche le cose più vergognose. Se volete seguire la tradizione, sinceramente, ci sono blog con un pedigree assai più nobile di quanto ne abbia questo. Tutti i maestri, in realtà, hanno insistitito sul fatto che la posizione deve essere comoda, stabile, e che la schiena deve rimanere dritta. Tutto qui. Mettetevi in un modo da poter rimanere immobili e con la schiena dritta per il tempo che vi serve ed iniziate con quella. Via via che progredirete vi sarà chiaro che potete meditare in ogni posizione che vi viene in mente senza problemi di nessun tipo. Personalmente, per i primi tempi, suggerisco di mettervi seduti con le gambe incrociate, ponendo un cuscino duro sotto le natiche se sentite di averne bisogno. Se la superficie su cui vi sedete è troppo dura o fredda, stendete una coperta ripiegata o qualcosa di simile sotto il cuscino. Se nemmeno questa posizione fosse praticabile, sedetevi su di una sedia dura, sempre con la schiena dritta. Potete anche provare a sdraiarvi direttamente sul letto, appoggiati su di un fianco con le gambe parallele e una mano sotto la testa, in questo modo potrebbe capitarvi di scivolare direttamente nel sonno mentre meditate: niente paura, non è il vostro obiettivo ma vi permetterà di dormire sereni se avete problemi in tal senso.

Come vestire?
Personalmente non credo sia importante, a meno che non lo sia per voi, ovvio. Alcuni non riescono a meditare se non indossano un kesa. Credo basta essere comodi, per ovvie ragioni evitate mini gonne, jeans attillati, scarpe o stivali, maglioni o vestiti da sera. Per il resto fate come dredete sia meglio per voi. Ripeto, non è fondamentale ai fini della meditazione. D'estate io medito in spiaggia seduto su di un mucchio di sabbia, con il solo costume da bagno e mi viene benissimo.

lunedì 18 febbraio 2013

Meditare camminando

La seduta classica di kin-hin è preannunciata dal suono dell’in-kin, una piccola campana di bronzo fissata a un manico di legno.  
 
A questo segnale i monaci Zen danno inizio a un’altra forma meditativa, conosciuta come kin-hin. Si tratta di una meditazione camminata che serve a intervallare due sedute di zazen, la più classica e conosciuta forma di “meditazione seduta” dello Zen. 
La camminata del kin-hin inizia sempre con il piede destro: s’inspira, si solleva il piede, si espira e lo si appoggia a terra.  
 
Si avanza di mezzo passo per volta, ciascuno in base al proprio ritmo ma in maniera armoniosa con gli altri meditanti presenti nella stanza. La schiena è ben dritta, le spalle rilassate e le mani nella posizione di sasshu, e cioè con la mano sinistra con il pollice stretto tra le dita, racchiusa dalla destra che la avvolge tutta, i gomiti alti.  
 
Le vertebre cervicali estese, il mento leggermente rientrato verso il petto, lo sguardo con un’inclinazione di 45° davanti a sé. Quando si arriva all’angolo della stanza si gira col piede sinistro esterno e ci si volta unendo i piedi. Al passo successivo si riparte col piede destro. 
Kin-hin non è essenzialmente diverso da zazen, a cambiare è la forma ma non la sostanza della pratica meditativa. Si tratta in entrambi i casi di sentirsi profondamente in relazione e in armonia con l’universo.  
 
Questo atteggiamento ci permette di condurre una vita senza separazioni e limitazioni. Grazie alla presenza totale, nell’istante e nel luogo presente, il meditante raggiunge l’unità corpo-mente.  
 
Si procede come descritto camminando fino al suono della campana che segna la fine della sessione di kin-hin. 
 
Al rintocco della campanella, sempre in sasshu, si uniscono i piedi e si china lievemente la testa in avanti. Subito si riprendel a camminata partendo con il destro, stavolta mantenendo un passo veloce fino a raggiungere nuovamente il proprio cuscino da meditazione.  
 
Raccolti in sasshu, si attende che tutti i partecipanti alla sessione siano ritornati al proprio posto, dopodiché ci si volta di 180° in senso orario, si fa gassho rivolti verso la parete e ci si siede in posizione sul proprio zqfu. Seduti nella corretta postura, al terzo suono di campana, con le mani disposte in hokkai-jouin ci si prepara per il secondo tempo di zazen.  
 
La fine della seconda sessione di zazen sarà scandita da quattro colpi di campana che segnano l’inizio della cerimonia dei Sutra.  
 
La recitazione dei Sutra è sia esercizio intellettuale sia vibrazione energetica: come avviene anche in zazen l’obiettivo finale è quello di abbandonare il proprio ego, la propria individualità per fondersi col cosmo.  
 
L’atto della camminata ha il potere di riportare l’uomo alla coscienza del propria autentica natura, dell’esserci, e rappresenta quindi tin modo per riprendere contatto con se stessi, con il proprio corpo, la propria mente, con il proprio ruolo nel mondo.  
 
Ciò potrebbe apparire banale e scontato, eppure nella nostra vita quotidiana così come in quella lavorativa ci aggiriamo spesso come fantasmi, immersi e sopraffatti da continui stimoli esterni, perdendo in tal modo il senso del nostro esistere, dell’esserci qui e ora.  
 
Meditazione camminata per tutti 
 
Il vantaggio della meditazione camminata è che può essere praticata in qualsiasi momento: quando andiamo a prendere l’automobile, per andare da una stanza all’altra del nostro ufficio, uscendo dal lavoro, facendo le pulizie in casa ecc.  
 
Si rivela particolarmente adatta alle persone nervose, come preparazione a quella seduta, più impegnativa.  
 
Questa meditazione si può fare camminando in cerchio in una stanza, o seguendo un vero e proprio percorso, oppure andando avanti e indietro per un tratto di circa 200 30 passi; in quest’ultimo caso, alla fine del tratto ci si può fermare, fare tre respiri in pieno contatto con le proprie sensazioni e quindi ritornare indietro. Non deve essere una camminata forzata e innaturale:  
l’importante e la profonda consapevolezza del corpo e della mente, e magari un sorriso.

domenica 17 febbraio 2013

ZAZEN - meditare seduti


La pratica principale su cui lo Zen si basa per aiutare tutti gli esseri è la meditazione, che nello Zen viene chiamata Zazen. È una meditazione per risvegliarsi alla Vera Vita, per aiutarci a superare i nostri condizionamenti e attaccamenti che velano la realtà dell’esistenza umana. La parola Zazen, “seduti semplicemente”, significa che ci sediamo in meditazione zazen con semplicità, senza scopi e aspettative, senza nulla volere e pensare, persino senza l’idea di sedersi senza nulla volere e pensare. Il segreto e la difficoltà risiedono proprio in questa parola: semplicemente. Quando ci sediamo in Zazen, infatti, abbandoniamo saperi e conoscenza ed entriamo nudi nella pratica del non-sapere. Entrare nella non-conoscenza ci permette di non avere scollamento tra noi e noi, di aderire a tutte le cose e non a una in particolare. La percezione cosciente non si rivolge più in modo unilaterale ed esclusivo verso il mondo oggettivo, esterno, ma converge verso il soggetto, ovvero noi stessi, la nostra interiorità. Si dischiude una realtà quasi sconosciuta, dimenticata. Subentra il silenzio, la non-mente ed emerge una condizione di calma, pace, non-pensiero, profondo rilassamento, assoluto silenzio. Differenti Maestri Zen hanno messo l’accento sulla “Pratica dell’Illuminazione Silenziosa”, che nella tradizione Zen giapponese si chiama Shikantaza, cioè testimoniare la realtà del proprio essere.  Nello Zen si dice, infatti, “Entri in Zazen e non ne esci più”: significa che quando ti siedi in meditazione, lo fai con il tuo bagaglio di illusioni e per praticare qualche cosa. Poi la tua illusione di essere un piccolo io separato svanisce ed ecco che non c’è più nessuno seduto in Zazen, non ci sei più tu come ti pensavi prima. E quando riprendiamo nella vita quotidiana le nostre conoscenze e comuni facoltà di essere umano, sappiamo come viverle, portandovi l’aderenza alla realtà così com’è, maturata nello Zazen, e non solo la propria visione dualistica e discriminante.
Lo Zazen inteso come Shikantaza, “Pratica dell’Illuminazione Silenziosa”, non è da confondersi con la mente fissata nel Samadhi, cioè in quello stato non pensante di assoluta estraneità  dalla realtà.
Così Zazen non è praticare qualcosa, ma è la manifestazione di ciò che realmente siamo, è la riscoperta di ciò che siamo sempre stati. Questa è la realizzazione.


cfr. http://www.monasterozen.it/it/la-meditazione-zazen/lo-zazen.html


venerdì 15 febbraio 2013




Centro Studi Spirituali 'Chsolu'


Buongiorno a tutti quanti,
dopo i doverosi, credo, posts, dedicati all'abdicazione del papa, o alle sue dimissioni se preferite, credo bene sia il caso di tornare al discorso iniziato, quello sulla meditazione.
Perché dedicarci tutto questo tempo?
Perché elencare tutta una serie di contributi che spiegano cosa sia ed in quali forme si è presentata ed è stata adottata da alcune tra le principali tradizioni religiose del mondo?
La risposta riguarda il motivo per cui sono qui.
La meditazione non è associabile ad una sola religione. Questo è un dato di fatto.
E' vero che lo Zen, ad esempio, prende il nome proprio dalla meditazione, giapponese 'zen' che traduce il cinese 'chan' che a sua volta traslittera il sanscrito 'dhyāna', ma è anche vero che in ogni tipo di esperienza spirituale, dagli albori della preistoria ad oggi, si è sempre meditato.
La meditazione è quindi un punto di partenza, un vocabolo che tutti possono capire.
Un veicolo.
Una pratica pura, priva di segno ed estranea al dogma.
La puoi praticare per prepararti alla preghiera, o per concentrarti sui misteri divini, oppure per fare chiarezza, oppure per rilassarti o per qualsiasi cosa vuoi. Niente ti proibisce di farlo.
Qualcuno ha scritto che la meditazione puù diventare la religione del nuovo millennio e di quelli avvenire: essenziale, pluralistica, moderna nella sua millenaria storia.
La meditazione, secondo me, può essere il punto di partenza su cui ricostruire la nostra spiritualità. Uno start nel quale tutti possono agevolmente riconoscersi.
Anche qui, anzi propio qui per primo, credo sia necessario operare una pulizia che la liberi da ogni accessorio inutile in modo da riconoscere ciò che è essenziale e ciò che è solo folclore e tradizione arbitraria. Ogni tradizione ha caratterizzato la meditazione secondo il suo luogo, il suo tempo, le proprie caratteristiche dogmatiche  e i suoi accidenti. Per ripartire, anche qui è necessario individuare l'essenza, salvo poi tornare alle tradizioni ma in modo del tutto eclettico, senza preconcetti ed esclusioni.

Con affetto.
Giovanni Vannucchi

giovedì 14 febbraio 2013

DOMANDA. Padre Lombardi dice che Ratzinger sta bene.
Risposta. È vero, non c’è alcuna malattia.
D. E allora perché lascia?
R. È affaticato, gli manca l’energia. Un po’ dipende dall’età. Un po’ bisogna riconoscere che gli scandali che hanno segnato il suo pontificato sono costati molto alla sua salute. E hanno pesato in questa decisione.
D. La pedofilia, lo Ior, Vatileaks. Quale lo ha segnato di più?
R. Penso che la vicenda di Paolo Gabriele (il maggiordomo Corvo che lo ha tradito, ndr) sia stata la più dolorosa e la più difficile da gestire.
D. Un’altra versione in effetti è che il papa abdichi perché ha perso lo scontro di poteri in Vaticano.
R.
Non so dirlo.D. Ma uno scontro esiste…
R.
In quale luogo non ci sono scontri? Dove ci sono uomini che lavorano insieme ci sono sempre tensioni, ma non sono questi ad aver causato le dimissioni del pontefice. Nessuno festeggia oggi perché il pontefice lascia.
D. Nemmeno il cardinale Bertone, da tutti descritto come il suo avversario?
R.
Questa è una visione molto cinica e non credo che appartenga alla Chiesa.
D. Gli scandali sono reali. E ora Ratzinger sembra avere quasi fretta di lasciare i suoi appartamenti: ha detto che dopo il 28 febbraio andrà a Castel Gandolfo.
R
. È vero, non nascondo che questa decisione ha spiazzato tutti. Ma Ratzinger si è sempre considerato come un vicarius christi, ha trattato il suo compito come un vero ufficio. Ora evidentemente sa che non può intervenire in modo adeguato per espletare i suoi doveri."
 cfr. http://www.lettera43.it/politica/gli-scandali-hanno-fatto-ammalare-benedetto-xvi_4367583487.htm

Spesso la verità sta nel mezzo, di solito in mezzo alle righe dei comunicati ufficiali e delle interviste esclusive.
Perché vediamo che non c'é alcuna malattia anche se certi scandali hanno compromesso la sua salute. Se c'é qualcosa che compromette la salute è proprio una malattia. Quindi si è ammalato per gli scandali ma comunque si è ammalato.
Oppure ha perso effettivamente uno scontro tra fazioni, anche se il portavoce dice di non saperlo, pur comunque non negandolo. Come non nega che dietro ci sia il Cardinale Bertone.

Io inizio a propendere per una manovra astuta e sicuramente utile ma non così nobile come è stata presentata. Questo papa non può essere quello che guida la chiesa al confronto con i temi di questo secolo. Lo sa lui e lo sanno i cardinali, che sono quelli che da almeno due pontificati (due e mezzo) reggono il pallino del gioco. Sia che sia in gestazione una sorprendente rivoluzione copernicana, sia che ci si prepari ad una restaurazione non meno sorprendente. Benedetto XVI non ha la cultura per rinnovare ed ammodernare la chiesa né le forze fisiche ed il tempo per combattere una lunga guerra con le tendenza riformatrici esistenti nella chiesa stessa ed ormai mature.
Doveva essere un papa di transizione, proseguire oper qualche anno il pontificato di Giovanni Paolo II che, quello sì, ha caratterizzato profondamente con il suo genio teologico e la sua intransigenza dottrinale. Purtroppo per lui è campato troppo ed ora dovrà scontare questo suo 'difetto' con  una dorata prigione claustrale.
Giovanni Vannucchi


mercoledì 13 febbraio 2013

Dimissioni di Papa Benedetto XVI (2005-2013)

Premessa

Le seguenti righe non vogliono essere polemiche né offensive. Sono solo riflessioni scaturite dagli avvenimenti degli ultimi giorni. Sono del tutto personali e non vogliono avere nessuna pretesa di validità assoluta. si tratta al limite di ipotesi o, se volete, di  pure e fantasiose congetture; utili, al limite, a stuzzicare la fantasia e la conversazione tra una portata e l'altra.

Postilla

La cosiddetta, rinuncia, del Papa, mi ha colto completamente di sorpresa e non per motivazioni di tipo devozionale, politico o roba del genere ma casomai di tipo storico, anche se l'analisi storica della contemporaneità in azione è senz'altro quella del tipo più difficile.
Pochi, in questo frangente, hanno puntato il dito sul problema fondamentale: queste sono le prime vere e proprie dimissioni di un pontefice romano dall'istituzione del ministero petrino. Le prime due furono effettuate dai due pontefici nel procinto di essere incarcerati nel campo di prigionia in Sardegna, avendo il martirio ben chiaro di fronte. La terza vicenda di dimissioni è avvenuta nell'ambito di una vicenda intricata di deposizioni, ritorni, scomuniche ed esili che non giova alla contestualizzazione di quelle stesse. L'ultima, quella di Celestino V, è l'unica che può essere avvicinata al nostro caso, ma fu seguita dall'imprigionamento e dalla morte in vincoli dello stesso papa, proprio per paura che qualcuno non ne riconoscesse il successore.
Ecco: ad oggi tutti ne parlano, ma le dimissioni non sono di fatto previste dal diritto canonico, se non con l'eccezione, già prevista  e proposta dal futuro Bonifacio VIII, che il papa può fare in effetti quello che vuole, (ovviamente detto in maniera più elegante).
Per questo motivo, al Ratzinger, dovrà essere imposto il  totale silenzio e de facto la morte civile. Non potrà più comparire né farsi vivo ma solamente, come ha detto lui stesso, collaborare con la chiesa unicamente con una vita di preghiera e meditazione, sepolto vivo in clausura.

Riflessione interlocutoria

Perché una personalità che ha caratterizzato teologicamente gli ultimi trent'anni della Chiesa Cattolica, prima come effettivo braccio destro del papa e poi come papa lui stesso, decide di sua spontanea volontà di tapparsi la bocca in questo modo per gli anni a venire?

Ipotesi

- Ha veramente scoperto di essere più vecchio di quanto pensasse di essere e onestamente, ma solo in senso umano corrente e non in quello ecclesiastico,  ha pensato di lasciare la mano a qualcuno più giovane, che comunque è difficile che abbia meno di settanta anni, (mas non impossibile).
- Ha piuttosto avvertito chiaramente, da uomo intelligente e preveggente qual'é, che la barca sta finalmente affondando e che il parziale risveglio dell'ultimo decennio di Giovanni Paolo I è stato solo il canto del cigno del papato o, almeno, della sua corrente all'interno della Chiesa, quella più intransigente e conservatrice. (In questo senso andrebbe quindi interpretata la sua ammissione di impotenza di fronte alle sfide fututre da affrontare.)
- Il papa, ormai, rimasto in minoranza per motivi di età di fronte ad altre correnti emergenti, sarebbe stato consigliato a farsi da parte con l'unico gesto clamoroso che sarà ricordato del suo peraltro anonimo pontificato. (Il ché spiegherebbe la prontezza con la quale è stata illustrata l'altrimenti inedita procedura da tenere nel mese a venire)


Giovanni Vannucchi

Illuminazione - prima parte

Il Satori (悟, giapponese Satori, da satoru, "rendersi conto"; cinese ), nella pratica del Buddismo Zen indica l'esperienza del risveglio inteso in senso spirituale, nel quale non ci sarebbe più alcuna differenza tra colui che si "rende conto" e l'oggetto dell'osservazione.
« Satori, in termini psicologici, è un oltre i confini dell'Io. Da un punto di vista logico è scorgere la sintesi dell'affermazione e della negazione, in termini metafisici è afferrare intuitivamente che l'essere è il divenire e il divenire è l'essere. »
(Daisetz T. Suzuki, dall'introduzione del libro Lo zen e il tiro con l'arco)

Il satori è il momento dell'illuminazione nella pratica del Buddismo Zen, momento in cui l'intera esperienza personale e cosmica è proiettata in un unico istante, che porta ad un annullarsi cosciente del soggetto, non derivante da una rinuncia al mondo esterno ma dalla partecipazione ad esso tramite l'atto puro. Tale processo è ben espresso dalla forma poetica dell'haiku.

Illuminazione permanente

Il significato letterale della parola è "comprendere", ed è talvolta usata come sinonimo di Kensho, ma quest'ultimo non è uno stato di illuminazione permanente, ma solo un lampo di comprensione della vera natura della creazione; il Satori, al contrario, è uno stato d'illuminazione profonda e duratura.
Lo psicoanalista-filosofo Carl Gustav Jung, nella prefazione a La grande liberazione. Introduzione al Buddismo Zen di Suzuki Daisetsu Teitarò, si sofferma in modo particolare nell'affermare come lo Zen sia prima di tutto Satori.

Illuminazione temporanea

Il Buddismo Zen generalmente riconosce l'illuminazione come una cosa transitoria nella vita, una rivelazione, e il satori è uno stato d'illuminazione limitato nel tempo. Poiché però secondo la filosofia Zen tutte le cose sono transitorie, la natura temporanea del satori non è vista come una limitazione nel senso che una rivelazione temporanea avrebbe nella comprensione occidentale dell'illuminazione.
La natura transitoria del satori, opposto all'eterno Nirvāṇa anelato dalla tradizione Buddista in India, deve molto all'influenza taoista sul Buddismo Chán in Cina, di cui il Buddismo Zen del Giappone è un'evoluzione. Il Taoismo è una filosofia mistica che enfatizza la purezza del momento, mentre le radici indù del Buddismo indiano hanno una visione più ampia volta all'uscita dalla prigione Karmica, prigione della perpetua rinascita del mondo materiale.

da http://it.wikipedia.org/wiki/Satori

martedì 12 febbraio 2013

La meditazione

La meditazione (dal latino meditatio, riflessione) è, in generale, la pratica di concentrazione della mente su uno o più oggetti, immagini, pensieri (o talvolta su nessun oggetto) a scopo religioso, spirituale, filosofico o semplicemente di miglioramento delle proprie condizioni psicofisiche.
Tale pratica, in forme differenti, è riconosciuta da molti secoli come parte integrante di tutte le principali tradizioni religiose. Nelle Upaniad, scritture sacre induiste compilate approssimativamente a partire dal VII secolo, è presente il primo riferimento esplicito alla meditazione che sia giunto fino a noi, indicata con il termine sanscrito dhyāna (ध्यान).
Nell'ambito della psicosintesi è definita uno stato della coscienza che può essere ottenuto mediante l'indirizzamento volontario della nostra attenzione verso un determinato oggetto (meditazione riflessiva) o mediante la completa assenza di pensieri (meditazione recettiva).
La meditazione recettiva ha come scopo l'assenza di pensieri e permette alla mente di raggiungere un livello di "consapevolezza senza pensieri". È un tipo di meditazione tipica di numerose filosofie e religioni orientali.
Nella meditazione riflessiva l'oggetto della meditazione può essere qualsiasi cosa. In genere nella pratica vengono utilizzate visualizzazioni di oggetti fisici oppure semplicemente oggetti che riguardano il mondo interiore come emozioni o qualità, oppure immagini o testi sacri. Questo tipo di meditazione è più vicina alla cultura occidentale.
Attraverso la dinamica del modo di operare della mente, si può riuscire a riconoscere la distinzione tra un io egocentrico, che si identifica con l'essere io (nome) e l'Io (sé) in grado di osservare l'osservatore (oggettivizzare il soggetto). Questo metodo comporta quattro stati di coscienza:
  • vedo l'oggetto.
  • mi accorgo di vedere che vedo l'oggetto.
  • mi accorgo di vedere il vedere che vedo l'oggetto.
  • assorbimento in uno stato che supera la dualità soggetto/oggetto al di là dell'espressione e della comunicazione convenzionale.
Anche nello yoga lo stato raggiunto tramite la pratica della dhyana favorirebbe l'esperienza della "visione" e, ad un livello superiore, dell'illuminazione, ossia della rivelazione della divinità onnipresente. Nell'ambito dello Yoga, la meditazione è il 7º degli otto stadi indicati da Patanjali e si dice che la mente è nello stato di meditazione, dhyana, non sta meditando è la meditazione stessa, e mentre ci sono molte tecniche di concentrazione, dharana, non esiste una vera e propria tecnica di meditazione. Nella pratica di Sahaja Yoga la meditazione è considerato uno stato d'essere che si manifesta come assenza di pensieri, chiamato consapevolezza senza pensieri, dove la mente smette il suo usuale chiacchierio di sottofondo e diventa assolutamente tranquilla.
Questo stato di "pura consapevolezza senza oggetto" può essere raggiunto anche con altri generi di pratiche meditative: ad esempio la Meditazione Trascendentale si basa sulla ripetizione mentale di un mantra. In ogni caso il termine "meditazione", com'è inteso normalmente nella lingua italiana, si rivela inadeguato a dare un'idea efficace di questo tipo di pratiche: un termine meno impreciso potrebbe essere contemplazione.
Parecchi studi condotti fin dal 1970 su una tecnica specifica, la Meditazione Trascendentale, hanno evidenziato la sua efficacia nella diminuzione di ansia e stress e nel miglioramento della salute. In seguito furono condotte altre ricerche e meta analisi coinvolgendo altri metodi di meditazione.
Nella loro analisi comparativa sugli studi scientifici sulla meditazione, pubblicato nel 2000 nell' International Journal of Psychotherapy, Perez-De-Albeniz e Holmes[6] hanno identificato le seguenti componenti in comune con tutti i metodi meditativi:
  1. rilassamento
  2. concentrazione
  3. alterato stato di coscienza
  4. sospensione dei processi di pensiero logico e razionale
  5. presenza di una attitudine alla autocoscienza ed alla auto-osservazione.
Numerosissimi sono gli studi della comunità medica sugli effetti fisiologici della meditazione.
Il Dr. James Austin, neuropsicologo dell'Università del Colorado, ha indicato come la meditazione Zen possa modificare le connessioni nervose del cervello nel suo libro Zen and the Brain (Austin, 1999). Questo è stato confermato mediante risonanza magnetica funzionale sull'attività del cervello.
Recentemente uno studio scientifico americano pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, ha dimostrato effetti rilevanti della meditazione secondo il metodo Integrative body-mind training (tecnica nata in Cina negli anni '90) sul miglioramento delle condizioni di vita: la depressione si attenua, e le difese immunitarie si rinforzano. I ricercatori hanno verificato che il gruppo di studenti che avevano applicato avevano una concentrazione di cortisolo molto inferiore e una migliore risposta immunitaria rispetto al gruppo di controllo. Dai questionari è anche emerso che la meditazione aveva abbassato i livelli di rabbia, ansia, depressione e fatica. Il dottor Yi-Yuan Tang, il coordinatore della ricerca ha così dedotto che i processi mentali, la consapevolezza e l'attenzione sono aspetti della vita che possono essere esercitati, esattamente come i muscoli.
Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Meditazione