La Terza Nobile Verità, nei suoi tre aspetti, è: "Vi è la cessazione della sofferenza o dukkha. Bisogna realizzare la cessazione di dukkha. La cessazione di dukkha è stata realizzata".
Lo scopo dell’insegnamento buddhista è sviluppare la mente riflessiva affinché lasci andare le illusioni. Le Quattro Nobili Verità insegnano a lasciare andare, utilizzando l’investigazione, l’osservazione e la contemplazione del "perché è così?"
Riflettiamo ad esempio sul perché i monaci si rasano la testa o perché le immagini del Buddha hanno quella determinata apparenza. Contempliamo soltanto... La mente non si forma un’opinione su queste cose, non si chiede se siano buone o cattive, utili o inutili. La mente si apre e si chiede: "Che cosa significa ciò? Cosa rappresentano i monaci? Perché vanno in giro con la ciotola delle elemosine? Perché non possono maneggiare denaro? Perché non possono coltivare il proprio cibo?" Poi contempliamo come questo modo di vivere abbia conservato la tradizione e abbia permesso che essa fosse tramandata, dal tempo del suo originale fondatore, Gotama il Buddha, fino ai giorni nostri.
Riflettiamo, quando vediamo la sofferenza, quando vediamo la natura del desiderio, quando riconosciamo che l’attaccamento al desiderio è sofferenza. Avremo quindi l’intuizione di lasciare andare il dolore e di realizzare la non-sofferenza, la cessazione della sofferenza. Queste intuizioni si possono avere solo attraverso la riflessione; non si possono avere per fede. Con la volontà non potete indurvi a credere o a realizzare un’intuizione. Le intuizioni ci giungono per mezzo della contemplazione e della meditazione su queste verità. Giungono quando la mente è aperta e ricettiva agli insegnamenti, poiché non è auspicabile né utile una fede cieca. Anzi, la mente deve essere consciamente ricettiva e meditativa.
Questo stato mentale è molto importante, poiché è la strada che ci porta fuori dalla sofferenza. E lo può fare la mente che è aperta alle Quattro Nobili Verità e che riflette su ciò che vede all’interno della propria mente; non quella mente che ha idee fisse e pregiudizi, che pensa di sapere tutto e che prende per verità tutto ciò che un altro dice.
Raramente la gente realizza la non-sofferenza, proprio perché occorre avere un grande ardore di conoscenza per andare oltre le apparenze e le ovvietà, per investigare e meditare, per osservare chiaramente le proprie reazioni, per vedere gli attaccamenti e contemplare "che cos'è l’attaccamento?".
Per esempio, vi sentite felici o liberati quando siete attaccati al desiderio? E’ eccitante o deprimente? Queste sono le cose da investigare. Se scoprite che essere attaccati ai desideri è liberatorio, allora andate avanti. Rimanete attaccati ai desideri e osservatene il risultato.
Nella mia pratica ho visto che l’attaccamento al desiderio è sofferenza. Non ho dubbi che molte sofferenze nella mia vita siano state causate dall’attaccamento alle cose materiali, alle idee, alle paure. Posso vedere tutta l’infelicità che ho procurato a me stesso con l’attaccamento, poiché non conoscevo di meglio. Sono cresciuto in America, la terra della libertà, che sancisce il diritto a essere felici, ma che in effetti sancisce il diritto ad essere avidi di tutto. L’America spinge a credere che più oggetti si comprano, più ci si sente felici.
Tuttavia, se lavorate con le Quattro Nobili Verità, dovete capire e contemplare l’attaccamento; e da qui sorgerà l’intuizione per il non-attaccamento. E non sarà un’imposizione o un ordine della mente che vi dirà di non essere avidi; avrete una spontanea intuizione del non-attaccamento e della non-sofferenza.
LA VERITA’ DELL’IMPERMANENZA
Qui ad Amaravati recitiamo il Dhammacakkappavattana Sutta nella sua forma tradizionale. Quando il Buddha tenne il sermone sulle Quattro Nobili Verità, uno solo dei cinque discepoli lo capì veramente; solo uno ebbe un’intuizione profonda. Agli altri piacque e pensarono: "E’ proprio un bell’insegnamento", ma solo uno di essi, Kondañña, comprese perfettamente ciò che il Buddha voleva dire.
Anche i devas stavano ad ascoltare il sermone. I devas sono creature celesti, eteree, molto superiori a noi. Non hanno rozzi corpi come noi; hanno corpi eterei e sono belli, gentili, intelligenti. Ma anch'essi, seppur dilettati da quel sermone, non ne furono illuminati.
Si dice che furono molto contenti dell’illuminazione del Buddha e che, all’udire l’insegnamento del Buddha, lo acclamarono attraverso tutti i cieli. Cominciarono i devas del primo livello e poi quelli del secondo livello e presto tutti i devas di tutti i livelli ne gioirono, su su fino al più alto, al regno di Brahma. Tutti erano contenti che si fosse messa in moto la Ruota del Dhamma; eppure, dei cinque discepoli, solo Kondañña, fu illuminato, ascoltando il sermone. Alla fine del sutta, Buddha lo chiamò Añña Kondañña. Añña significa ‘profonda conoscenza’, per cui Añña Kondañña significa ‘Kondañña che sa’.
Cosa sa Kondañña? Quale fu l’intuizione che il Buddha gli riconobbe alla fine del sermone? Fu questa: "Tutto ciò che è soggetto a nascere è soggetto anche a cessare". Può darsi che non ci sembri una grande intuizione, eppure essa implica una verità che riguarda l’universo intero: tutto ciò che è soggetto alla nascita è soggetto anche alla cessazione; è impermanente, senza un sé... Perciò non siate avidi, non lasciatevi illudere da ciò che nasce e cessa. Non cercate protezione rifugiandovi e credendo in ciò che nasce, poiché è destinato a cessare.
Se volete soffrire e sprecare la vostra vita, andate a cercare ciò che nasce; inevitabilmente vi porterà alla fine, alla cessazione, e non per questo diverrete più saggi. Anzi, andrete in giro ripetendo sempre vecchi modelli di comportamento e alla morte vi accorgerete di non aver imparato nulla di importante durante la vita.
Invece di pensarci soltanto, contemplate che "tutto ciò che è soggetto a nascere, è soggetto a cessare". Applicatelo alla vita in generale, ed alla vostra esperienza in particolare. Comincerete allora a capire. Prendete nota: "inizio... fine". Contemplate come stanno le cose. Tutto il mondo sensoriale nasce e cessa, comincia e finisce; e in tal modo si può avere la comprensione perfetta (samma ditthi) ancora in questa vita. Non so quanto tempo Kondañña visse dopo il sermone del Buddha, ma sicuramente in quel momento raggiunse l’illuminazione e da allora in poi ebbe sempre una perfetta comprensione.
Vorrei sottolineare l’importanza di sviluppare questo modo di riflettere. Invece che pensare soltanto a sviluppare un metodo per tranquillizzare la mente – che comunque è una parte importante della pratica – cercate di capire che meditare vuol dire soprattutto dedicarsi ad una ricerca profonda. Richiede il coraggioso sforzo di guardare profondamente dentro alle cose, senza però soffermarsi ad analizzare se stessi e a giudicare le cause della sofferenza solo a livello personale; richiede di impegnarsi con serietà a proseguire il cammino fino a raggiungere una profonda conoscenza. E questa perfetta comprensione è basata sul sorgere e cessare. Una volta capita questa legge, tutto assumerà la giusta proporzione. Enunciare che ‘tutto ciò che è soggetto a nascere, è anche soggetto a cessare’ non è un insegnamento metafisico. Non concerne la realtà ultima – la realtà della non-morte - ma se riuscite a capire e ad intuire profondamente che tutto ciò che è soggetto a nascere è anche soggetto a cessare, realizzerete la verità ultima, la non-morte, le verità immortali. Questa è la giusta via verso la realizzazione finale: non è un'affermazione metafisica, ma ci porta alla realizzazione metafisica.
Riflettendo sulle Nobili Verità, portiamo a livello di coscienza il problema stesso dell’esistenza umana con quel suo senso di alienazione e di cieco attaccamento alla coscienza sensoriale ed agli oggetti esteriori che si presentano alla coscienza. A causa dell’ignoranza, ci attacchiamo al desiderio di piaceri sensoriali, ci identifichiamo con ciò che è mortale o destinato a morire, con ciò che non dà soddisfazione, e proprio questo attaccamento è sofferenza.
I piaceri sensoriali sono tutti piaceri mortali. Qualsiasi cosa vediamo, udiamo, tocchiamo, gustiamo, pensiamo o sentiamo è mortale, destinato a morire. Quindi, quando ci aggrappiamo ai sensi, ci attacchiamo alla morte. Se non abbiamo contemplato o capito questa verità, ci attacchiamo ciecamente alla morte, pur sperando di poterne rimanere immuni per un po'. Fingiamo di essere particolarmente felici con le cose alle quali ci teniamo aggrappati; ma poi ci sentiamo disillusi, disperati, ingannati. Forse riusciremo a diventare ciò che vogliamo, ma anche questo è mortale. Ci stiamo attaccando semplicemente ad un’altra condizione mortale. E allora, desiderando morire, ci attacchiamo al suicidio o all’annullamento, ma anche la morte è una condizione destinata a morire. Nel campo di questi tre desideri, a qualunque cosa ci attacchiamo, in effetti ci attacchiamo alla morte, e questo vuol dire che sperimenteremo solo frustrazione e disperazione.
La morte della mente è disperazione; la depressione è una specie di esperienza mentale della morte. Come muore il corpo con la morte fisica, così anche la mente può morire: muoiono gli stati mentali e le condizioni mentali; e noi a questi stati diamo il nome di disperazione, noia, depressione, angoscia. Se, quando siamo in preda alla bramosia, al desiderio, proviamo noia, depressione, angoscia o dolore, cerchiamo subito qualche altra condizione mortale come contrappeso. Per esempio, se siete disperati e pensate: "Voglio un po’ di torta al cioccolato", per un po’ sarete assorbiti dal delizioso sapore della torta, ma non potrete andare avanti per molto. Trangugiate la torta e cosa ne rimane? E allora dovete fare qualcos’altro. Questo è ‘divenire’.
Siamo accecati, intrappolati nel processo del divenire sensoriale. Ma, se si riesce a conoscere il desiderio sensuale senza giudicarlo bello o brutto, arriveremo a vedere il desiderio così com’è. Questa è conoscenza. Poi, lasciando da parte i desideri senza attaccarci ad essi, sperimenteremo nirodha, la cessazione della sofferenza. Questa è la Terza Nobile Verità, che dobbiamo realizzare da soli. Contempliamo la cessazione, dicendo: ‘c'è la cessazione’ e così sappiamo quando qualcosa cessa.
Prima di lasciar andare le cose, dovete portarle a un livello di perfetta coscienza. Lo scopo della meditazione è permettere che il subconscio raggiunga la coscienza. Si permette alla disperazione, alla paura, all’angoscia, alla repressione e alla rabbia di diventare coscienti.
Molta gente tende a inseguire ideali molto alti e si sente frustrata quando si accorge di non esserne all’altezza, di non essere buona come dovrebbe, di non essere calma come dovrebbe: tutti questi 'dovrebbe' o 'non dovrebbe'... Sentiamo il desiderio di liberarci delle cose negative e questo desiderio ha una nobile giustificazione: è senz'altro giusto eliminare cattivi pensieri, rabbia, e gelosia, perché una brava persona ‘non dovrebbe provare cose tanto negative’. In tal modo nasce il senso di colpa.
Riflettendo, portiamo a livello di coscienza il desiderio di diventare quell’ideale e il desiderio di liberarci di ciò che è negativo. Solo così possiamo 'lasciar andare', in modo che invece di diventare una persona perfetta, lasciamo andare il desiderio di diventare tali. Ciò che rimane è la mente pura. Non c’è bisogno di diventare una persona perfetta perché è nella mente pura che la gente perfetta nasce e cessa.
E’ facile comprendere la cessazione a livello intellettuale, ma realizzarla può essere difficile poiché comporta lo stare con qualcosa che pensiamo di non poter sopportare. Per esempio, quando cominciai a meditare, mi ero fatto l’idea che la meditazione mi avrebbe reso più gentile e felice e mi aspettavo di sperimentare stati mentali meravigliosi. Invece, mai nella mia vita provai tanta rabbia e avversione come nei primi due mesi. Pensai: "E’ terribile, la meditazione mi ha reso peggiore". Ma poi contemplai perché stavo esprimendo tanto odio e avversione e realizzai che avevo trascorso gran parte della mia vita scappando da quei sentimenti. Ero un lettore accanito, portavo con me sempre dei libri. Ogni volta che sentivo paura o rabbia, prendevo un libro e mi immergevo nella lettura; oppure fumavo o mangiavo qualcosa. Mi ero fatto l’opinione di essere una persona gentile che non odia nessuno, per cui reprimevo ogni sensazione di avversione o odio.
Per questo i primi mesi come monaco furono molto difficili: cercavo sempre qualcosa con cui distrarmi, poiché con la meditazione avevo cominciato ad affrontare tutto ciò che per anni avevo cercato di dimenticare. Mi tornavano alla mente fatti dell’infanzia e dell'adolescenza; poi quell’odio e quella rabbia diventarono così espliciti che stavano per sommergermi. Qualcosa in me però mi diceva che dovevo sopportarli e farli uscire allo scoperto. L’odio e la rabbia che avevo soppresso in trenta anni si manifestarono in tutta la loro forza, poi furono come bruciati dalla consapevolezza e cessarono: attraverso la meditazione stava avvenendo un processo di purificazione.
Per permettere che questo processo si realizzi, bisogna essere pronti a soffrire. Ecco perché sottolineo l’importanza della pazienza. Dobbiamo aprire la mente alla sofferenza, perché solo abbracciando la sofferenza, questa cessa. Quando soffriamo, fisicamente o mentalmente, avviciniamoci a questa sofferenza, apriamoci completamente ad essa, diamole il benvenuto, concentriamoci su di essa, lasciandola essere ciò che è. Questo significa essere pazienti e sopportare il disagio di una certa situazione. Piuttosto che sfuggire ai sentimenti di noia, di disperazione, di dubbio, di paura, cerchiamo di sopportarli, perché solo comprendendoli, cesseranno.
Se non permetteremo alle cose di cessare, creeremo nuovo kamma, il quale a sua volta rinforzerà le nostre abitudini. Abbiamo l'abitudine di attaccarci ad ogni cosa che sorge e a lasciar proliferare i pensieri intorno ad esse, complicando in tal modo ogni situazione. Continuiamo così a ripetere per tutta la vita lo stesso atteggiamento; ma, inseguendo incessantemente i nostri desideri e le nostre paure, non possiamo certo aspettarci la pace. Se invece contempliamo i desideri e le paure, essi non ci inganneranno più; d’altronde dobbiamo conoscere ciò che dobbiamo lasciar andare. Il desiderio e la paura devono essere conosciuti come impermanenti, insoddisfacenti e senza un sé. Devono essere osservati e penetrati in modo che la sofferenza che contengono venga bruciata.
E’ molto importante, a questo punto, stabilire la differenza tra cessazione e annullamento – cioè il desiderio che sorge nella mente di liberarsi di qualcosa. La cessazione è la fine naturale di tutto ciò che sorge. Non è quindi un desiderio! Non è qualcosa che si crea nella mente, ma è la fine di ciò che è cominciato, la morte di ciò che è nato. Quindi, la cessazione non ha un ‘sé’ – non viene dall’impulso di ‘doversi sbarazzare di qualcosa’, ma avviene quando noi permettiamo che ciò che è sorto, cessi. Per farlo, si deve abbandonare la brama, lasciarla andare! Abbandonare significa lasciar andare, non rifiutare o cacciar via.
Con la cessazione, sperimentate nirodha – cessazione, vuoto, non-attaccamento. Nirodha è un’altra parola per Nibbana. Quando avete lasciato andare una cosa e le avete permesso di cessare, allora rimane solo la pace.
Potete sperimentare questo genere di pace nella meditazione. Quando lasciate andare il desiderio, ciò che rimane nella mente è una gran pace; ed è una vera pace, la non-morte. Conoscendo le cose 'così come sono', realizzate nirodha sacca, la Verità della Cessazione, in cui non c’è un sé, ma solo consapevolezza e chiarezza. La vera beatitudine è questa consapevolezza tranquilla e trascendente.
Se non lasciamo andare permettendo che avvenga la cessazione, rischieremo di partire da assunti che noi stessi ci costruiamo, senza neanche sapere ciò che stiamo realmente facendo.
Talvolta, solo con la meditazione cominciamo a capire come la paura o la mancanza di fiducia in sé, nascano da esperienze vissute nell’infanzia. Ricordo che da ragazzo avevo un carissimo amico che all’improvviso mi divenne ostile e mi respinse. Ne rimasi sconvolto per mesi e la mia mente ne ricevette un’impressione indelebile. Solo attraverso la meditazione realizzai come quel piccolo incidente avesse condizionato il mio rapporto con gli altri; avevo sempre avuto una tremenda paura di essere rifiutato, ma non ci avevo mai pensato, fino a quando non ne divenni consapevole con la meditazione. La mente razionale sa che è ridicolo continuare a pensare alle tragedie dell’infanzia. Ma se queste continuano a irrompere nella coscienza anche da adulti, vuol dire che cercano di dirvi qualcosa circa gli assunti e i pregiudizi su cui avete costruito la vostra personalità.
Quando, durante la meditazione, sentite sorgere ricordi ossessivi, non cercate di reprimerli, ma accettateli pienamente nella coscienza, e poi lasciateli andare. Se vi riempite la giornata in modo da evitare di pensarci, le probabilità per essi di arrivare alla coscienza sono minime. Vi impegnate in un'infinità di cose, vi tenete occupati, in modo che queste ansietà e queste paure senza nome non diventino mai consce. Ma che succede invece quando lasciate andare? Quell’ossessione, quel desiderio si muove – e si muove verso la cessazione. Finisce. E allora avrete l’intuizione della cessazione del desiderio. Infatti il terzo aspetto della Terza Nobile Verità è: "Si è realizzata la cessazione".
Il Buddha ha più volte detto: "Questa è la Verità da realizzarsi qui ed ora". Non dobbiamo aspettare di morire per scoprire se è tutto vero – questo insegnamento è per gli esseri viventi come noi. Ognuno di noi deve realizzarlo da solo. Posso parlarvene, posso incoraggiarvi a ricercarlo, ma non posso realizzarlo per voi!
Non pensate che sia qualcosa di vago o al di sopra delle nostre capacità. Quando parliamo del Dhamma o della Verità, diciamo che è qui ed ora, qualcosa che possiamo vedere da noi stessi. Possiamo volgerci verso la Verità, tendere verso di essa. Possiamo fare attenzione a tutto ciò che è, qui ed ora, in questo luogo ed in questo momento. Questa è la consapevolezza: essere vigilanti ed attenti. Con la consapevolezza, analizziamo il senso del ‘sé’, il senso del ‘mio’ e dell'‘io’: il mio corpo, i miei pensieri, le mie sensazioni, i miei ricordi, le mie opinioni, i miei punti di vista, la mia casa, la mia macchina, eccetera.
All'inizio avevo la tendenza ad auto-svalutarmi, fino al punto che quando pensavo "sono Sumedho" mi vedevo in modo negativo: "non sono buono". Provai ad ascoltare: "da dove veniva e dove cessava quella sensazione?"... Altre volte pensavo: "sono senz’altro meglio di te, ho scopi più elevati. Ho seguito a lungo la Santa Via, perciò sono meglio di tutti voi". Da dove veniva e dove cessava tutto ciò?
Quando c’è arroganza, superbia o auto svalutazione – qualunque cosa sia – esaminatela; ascoltate la voce interiore: "Io sono..." Siate consapevoli e attenti a quello spazio vuoto che precede il pensiero; poi pensate e notate lo spazio che segue il pensiero. Trattenete l’attenzione su questi spazi e osservate quanto a lungo potete rimanere attenti. Provate a vedere se sentite una specie di vibrazione sonora nella mente, il suono del silenzio, il suono primordiale. Concentratevi su di esso e riflettete: "Vi è forse qualche sensazione di un sé?". Vedrete che quando siete veramente vuoti – quando vi è solo chiarezza, vigilanza ed attenzione – non vi è un sé, né il senso di un ‘me’, di un ‘mio’. Sono in questo stato di vuoto e contemplo il Dhamma: penso "E’ così com’è. Anche questo corpo qui è così com'è". Posso dargli un nome oppure no, ma in questo momento è proprio solo così. Non è Sumedho!"
Non vi è alcun monaco buddhista nella vacuità. ‘Monaco buddhista’ è solo una convenzione appropriata al tempo e al luogo. Quando la gente vi loda e dice: "Come sei meraviglioso!", siate consapevoli di qualcuno che sta lodando, ma non identificatevi con la persona lodata. Sapete che non c’è alcun monaco buddhista, ma solo la ‘Quiddità’. C'è solo ciò che è. Se voglio che Amaravati abbia successo e poi Amaravati ha successo, io sono contento. Ma se è un fallimento, se nessuno è interessato, se non posso pagare la bolletta della luce e tutto crolla, allora ‘ah che fallimento!’ Ma non c’è un Amaravati. L’idea di una persona che è un monaco buddhista o di un posto che si chiama Amaravati, riguarda solo delle convenzioni, non la verità ultima. Ora è così e basta, proprio come deve essere. Non ci si porta addosso il peso di un luogo, poiché si vede chiaramente che quel luogo è così come deve essere e che non c’è alcuna persona identificata con esso. E altrettanto non ha importanza se ha successo o se fallisce.
Nella vacuità, le cose sono esattamente come sono. Avere questo genere di consapevolezza, non vuol dire essere indifferenti al successo o al fallimento e non significa che non dobbiamo far niente. Anzi, possiamo dedicarci meglio alle situazioni: sappiamo ciò che possiamo fare; sappiamo ciò che si deve fare e lo possiamo fare nel modo migliore. Allora tutto diventa Dhamma, tutto è così com’è. Facciamo delle cose perché sono le cose giuste da fare in quel momento e in quel luogo, non per ambizione personale o per paura del fallimento.
Il sentiero che porta alla cessazione della sofferenza, è il sentiero della perfezione. La perfezione può essere una sensazione temibile, poiché ci sentiamo molto imperfetti. Come entità personali, ci chiediamo come osiamo addirittura pensare alla possibilità di essere perfetti. Nessuno osa parlare della perfezione umana; non si pensa che possa esistere la perfezione quando ci si riferisce all’umanità. Eppure un arahant è un essere umano che ha perfezionato la vita, qualcuno che ha imparato tutto ciò che doveva essere appreso, avendo compreso la legge che "tutto ciò che è soggetto a nascere è anche soggetto a cessare". Un arahant non è tenuto a sapere tutto di tutto: basta che conosca e comprenda appieno questa sola legge.
Usiamo la saggezza del Buddha per contemplare il Dhamma, il modo in cui le cose sono. Prendiamo rifugio nel Sangha, in quelli che agiscono bene e si astengono dal fare il male. Il Sangha è una cosa sola, una comunità; non è un gruppo di individui diversi con caratteristiche differenti. Per noi monaci non ha più importanza essere un individuo, un uomo od una donna. Questo senso di completezza del Sangha è uno dei Rifugi. C’è una unità per cui, anche se le manifestazioni sono individuali, la realizzazione è la stessa. Quando siamo attenti, vigilanti e non più avidi, realizziamo la cessazione e ci rifugiamo nella vacuità dove tutto si fonde; non vi sono più persone lì. Si può sorgere e cessare nella vacuità, ma non c’è alcuna persona. Vi è solo chiarezza, consapevolezza, pace e purezza.
Cfr. The Four Noble Truths (© Amaravati Publications), Traduzione di Silvana Ziviani.
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