lunedì 25 febbraio 2013

Illuminazione - seconda parte


Samādhi (devanāgarī: समाधि, lett. "mettere insieme", "unire con") è un sostantivo maschile sanscrito proprio delle culture religiose buddhista e induista che descrive l'unione del meditante con l'oggetto della meditazione.
Il termine sanscrito samādhi deriva da saṃ ("insieme") rafforzato dalla particella ā + la radice verbale dha ("mettere").
La prima citazione del termine samādhi la si rileva nel Canone buddhista di poco posteriore è la sua menzione nella letteratura non buddhista successiva alle Upaniṣad, la Bhagavadgītā.
È nella letteratura buddhista che si riscontra per la prima volta il termine samādhi:
« Monaci, questi sono i quattro stadi della concentrazione (samādhi). Quali quattro? C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce al piacere in questa vita. C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce al conseguimento della conoscenza e della visione profonda. C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce alla consapevolezza e alla presenza mentale. C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce alla fine degli influssi impuri »
(Samādhisutta, Aṅguttaranikāya 4.41)

Buddhaghosa lo indica come "concentrazione in un solo punto" (cittekaggatā, in Aṭṭhasālinī 302, ed. Pali Text Society p. 118). La Dhammasaṅgaṇī (15, ed. Pali Text Society p. 11), vale a dire il testo Abhidhamma di cui l'Aṭṭhasālinī di Buddhaghosa è il commentario, definisce la facoltà del samādhi come "stabilità della mente" (cittassa ṭhiti), "risolutezza" (avaṭṭhiti), "equilibrio" (o "non-distrazione: avisāhāra), assenza di disturbo (avikkhepa), calma (samatha), "condizione della mente imperturbata" (avisāhaṭamānasatā).
Georg Fuerenstein evidenzia come con ciò non si intenda la "concentrazione della mente ordinaria" quanto piuttosto la capacità yogica di astrarsi dall'esterno focalizzandosi sulla propria realtà interiore.
Alle stesso conclusioni definitorie, in ambito buddhista, giunge Philippe Cornu:
« Quando essa rimane focalizzata su un unico punto o su un solo oggetto e le nozioni di "soggetto" e "oggetto" scompaiono, non si può più parlare realmente di "concentrazione della mente sull'oggetto" giacché resta solo l'esperienza meditativa in sé. »

Il samādhi corrisponde all'ultimo stadio dell'Ottuplice sentiero e quindi riassume tutte le pratiche meditative dei dhyāna oltre le quali si colloca l'obiettivo finale, il nirvāṇa.
Nel Buddhismo il samādhi è frutto dell'unione della tecnica meditativa del śamatha ("dimorare nella calma", ovvero calmare la mente) con l'altra tecnica meditativa denominata vipaśyanā ("visione profonda") queste due pratiche vanno eseguite unitamente anche se una può procedere dall'altra:
« Per accedere al samādhi, dunque, śamatha o vipaśyanā presi singolarmente non sono sufficienti »

Il termine samādhi compare anche nella Bhagavadgītā, opera successiva al Canone buddhista.
Mircea Eliade evidenzia che se il samādhi è considerato una esperienza "indescrivibile" esso non è comunque univalente e viene indicato come
« lo stato contemplativo in cui il pensiero afferra immediatamente la forma dell'oggetto senza l'aiuto delle categorie e dell'immaginazione (kalpaṇā); stato in cui l'oggetto di rivela "in sé stesso" (svarūpa). in ciò che ha di essenziale e come se "fosse vuoto di sé stesso" (arthamātranirbhāsaṃ svarūpaçūnyamiva in Yogasūtra, III,3 »

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