martedì 1 marzo 2016

In the desert





La mia prima esperienza di meditazione risale a poco meno di 30 anni fa: non si trattò di un qualcosa di cercato, nessuno mi disse come fare e, credo, che non fosse esattamente quello lo scopo della situazione in cui mi trovai.
Stavo partecipando per la seconda volta nella mia vita ad un incontro organizzato dall'Ordine Agostiniano, in un bellissimo eremo nei pressi di Siena. Il piatto forte della seconda giornata, e dell'intero meeting a essere precisi, sarebbe stata una cosa chiamata il "Deserto". Al mattino, dopo colazione, ci riunimmo nel tendone delle conferenze, ci venne spiegato sommariamente cosa fare, ci venne data una, ancor più sommaria, cartina disegnata a mano della zona circostante, un bastone e un cestino per il pranzo e fummo invitati a lasciare l'eremo.
Scopo della giornata era fare, appunto, "deserto" prendendo spunto dagli anni passati dagli ebrei a vagare per il Sinai ma anche dai quaranta giorni in cui Gesù venne tentato come dai padri del deserto che si isolavano in luoghi impervi e isolati per ceracre dio. L'idea era proprio quella di fare deserto dentro di noi per permettere una comunicazione diretta con il divino: partire dal deserto fisico, privo di contatti, del bosco circostante per arrivare a quello interiore.
Per molti non fu facile e per questo vennero previsti luoghi di incontro per aiutare chi era spaventato da questa esperienza: perché, diciamocelo: quando sei solo non hai scelta, devi avere a che fare con te stesso. Cadono tutte le barriere e ti si presenti davanti per quello che sei e spesso questa visione non ci piace, o meglio: non piace a tutti. Così c'erano frati disponibili a confessare, un gruppo di preghiera in chiesa, lectio divine a ripetizione in un'altra chiesa poco distante e altri religiosi pronti ad ascoltarti o parlarti alla bisogna.

Io mi persi.

Si, mi persi.
Non nel senso fisico, perché conoscevo quei posti come casa mia.
No, mi persi nel deserto. Mi persi proprio.
E nel nulla che si creò dentro di me, io mi ritrovai.
Nessuna posizione particolare perché non le conoscevo e a causa di un difetto ad una gamba non le ho mai potute assumere.  Mi misi semplicemente seduto in una piccola valle che sapevo aprirsi poco dietro l'eremo, vicino alle antiche grotte degli eremiti che avevano abitato quei luoghi mille anni prima. Mi sedetti a terra più conodo e dritto che potei e, senza nemmeno volerlo, mi lasciai andare.
Mi lasciai andare completamente, mollai gli ormeggi, allentai la presa.
Ero lì ma non c'ero.
Non ero lì ma ero ovunque.
Fu naturale e  spontaneo almeno quanto difficile da riprodurre nei mesi successivi.
Fu uno scivolare.
Uno sprofondare, di più: un'espandermi in tutto.

Quando tornai all'eremo, poco prima di cena, qualcuno aveva già cominciato a preoccuparsi e fu con una certa delusione che, specialmente i capi dei vari gruppi di lavoro, si resero conto che non avevo approfondito nessuno dei punti accennati al mattino. Hai fatto una gitarella nel bosco, mi sorrise qualcuno di loro, con un malcelato sarcasmo misto a paterna disapprovazione. Io, in realtà, non sapevo cosa avessi fatto. Cosa avevo fatto? No, non avevo pensato ai punti sottolineati il giorno prima durante i lavori di gruppo, non avevo riletto i passi consigliati dei vangeli, non avevo riflettuto sulla parola di Dio. Probabilmente non avevo capito niente di cosa avrei dovuto fare e, in fin dei conti, mi sentivo un po' dispiaciuto della mia pochezza.
La sera dovevamo lasciare un biglietto con una frase che riassumesse la nostra riflessione.
Mi ricordo di aver scritto: Dio è Tutto.

Giovanni

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